Frammenti
giapponesi
Prima ancora di che finissi Facebook in the rain, Fede mi ha portato nella famosa edicola da
mare a scegliere un nuovo libro. Scorrendo velocemente gli scaffali (le
scottature dopo una giornata al mare mi impedivano di concentrarmi a lungo), ho pensato di fare un
nuovo tentativo con Murakami (per chi se ne ricorda, di lui avevo già letto e
recensito L’arte di correre, e mi ero
ripromessa di conoscerlo più a fondo). Siccome però tutti i suoi romanzi mi
sembravano un po’ altini per rispettare la regola numero 2 dei libri
dell’estate, ho deciso di puntare sui racconti. Ultimamente, sto diventando una
specie di esperta di racconti.
È una raccolta di solo sei racconti, tutti
piuttosto brevi; slegati, ma con alcuni punti in comune.
Per prima cosa – come saggiamente sottolinea la
quarta di copertina – tutte le storie raccontano un incontro. Tutti i
protagonisti (casi tipici, come la ragazza scappata di casa, il grigio impiegato di
banca, il marito abbandonato, la dottoressa in menopausa…), per ragioni
diverse, sono bloccati in una vita che non li soddisfa, quando,
improvvisamente, incontrano qualcuno che dà una piccola scossa alla loro
quotidianità.
La cosa strana è che la scossa non è risolutiva,
o, se anche lo è, al lettore non è dato di saperlo. Il racconto, infatti,
puntualmente, si conclude con la fine dell’incontro. Frustrante? Non direi. Per
chi, come me, ama i finali aperti, questa raccolta potrebbe sembrare una manna.
In realtà, però, forse non è neanche questo il punto: l’impressione è che, per
una volta, il finale davvero non conti. Questi racconti non presentano il
percorso di crescita dei protagonisti, ma solo la loro situazione, la loro
debolezza attuale. A pensarci bene, sembra quasi che gli incontri servano, più
che a dare al lettore la speranza di una soluzione, a raccontargli la fragilità
del presente. Non per niente, sullo sfondo c’è il continuo riferimento al
terremoto di Kobe (che, tra l’altro, è la patria dell’autore) del 1995. Cosa fa
percepire all’uomo la precarietà della sua condizione più della furia
imprevedibile di un terremoto? Ecco, gli incontri di questo libro sono un po’
come dei piccoli terremoti: arrivano inaspettati, smuovono, danneggiano,
feriscono… e lasciano danni e macerie da raccogliere, riconsiderare e
ricostruire, dopo.
Sì, dopo. In Tutti i figli di Dio danzano, infatti, non c’è nessun fremito di ottimismo
buonista, nessuno di quegli slanci di ricostruzione che conosciamo da
tanti film americani. Mi viene da dire che qui c’è una specie di passività
orientale. Un modo di guardare alla vita, e alla felicità, che è diversissimo
da quello a cui sono abituata. È forse cinico, decisamente malinconico... Forse, per gli amanti dell’azione e del lieto fine, sarà di poca soddisfazione; ma per
me senza dubbio è stato interessante.
Io non sono mai stata in Oriente; il mio unico
contatto con il Giappone fino a oggi veniva dai Manga letti alle medie (e non
ne andavo fiera). Con questo libro, per la prima volta, ho avuto la sensazione di quanto la cultura giapponese possa essere distante dalla mia. E ne sono
rimasta affascinata.
Forse non è stata la lettura più appassionante
dell’anno, ma penso che ne sia valsa la pena.
Quanto a Murakami… credo che avrò bisogno di leggere un suo romanzo,
per inquadrarlo una volta per tutte :)
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