lunedì 15 ottobre 2012

Incursioni musicali:episodio #11



Di me si può dire tutto, ma non che sono una persona monotona: riesco a passare dai caldi suoni di un complesso Jazz affacciato allo svincolo per la tangenziale ovest di Milano, al fragore dell’evento musicale dell’anno. Tranquilli, non sono andata a Sanremo, nemmeno in villeggiatura. Ero con ben 150.000 persone nel centro dell’Emilia lacerata dal sisma. Ero a Campovolo, qualche sabato fa.

Vi risparmio il racconto, assolutamente umoristico, del travagliato ritorno a casa che ha richiesto a me e alle mie compagne di sopportare contemporaneamente le dodici fatiche di Ercole e le dieci piaghe di Egitto. Va be’, forse è ho po’ esagerato, però le cavallette c’erano!

Mi concentro sul concerto, come è giusto che sia. 

“Italia loves Emilia” è stato un evento non paragonabile ad altro nella storia del rock italiano. Il successo è arrivato ben prima che il primo spettatore varcasse i cancelli di Campovolo. È arrivato quando si è saputo quanto denaro si è raccolto per la ricostruzione di  alcune scuole emiliane distrutte dal  sisma di questa primavera. Del resto, non si sarebbe potuto confezionare un cast del genere se non per una causa come questa. 

Dal punto di vista musicale, è stato un ottimo concerto. I due palchi, l’assenza del presentatore che avrebbe rallentato il ritmo e aggiunto altra retorica a quella inevitabilmente (e come negargliela) proposta dai cantanti, i duetti già rodati (vedi “Tu mi porti su” di Giorgia feat. Jovanotti o “Gli ostacoli del cuore” di Elisa feat. Ligabue) o del tutto nuovi, hanno reso lo spettacolo brillante e decisamente all’altezza delle previsioni.

Come spesso mi accade ultimamente, mi ritrovo a commuovermi per canzoni in modo del tutto inaspettato. Ma vi spiegherò meglio nella mia personale classifica “emotiva” della serata.

  1. “Madre dolcissima”, Zucchero con Elisa, Fiorella Mannoia e Jeff Beck: non la ascoltavo dal 1989, anno di uscita di “Oro, incenso e mirra”. Quell’album, l’unico di Zucchero posseduto dalla mia famiglia, era uno di quelli che girava nei lunghi viaggi estivi per raggiungere la Calabria. E di quell’album, in cui c’era anche un capolavoro come “Diamante”,  “Madre dolcissima” è sempre stata la mia preferita. L’assolo di chitarra di Jeff Beck e i cori di Elisa e la Mannoia hanno reso il brano ancora più intenso.  
  2. “Via”, Claudio Baglioni: lo confesso, da piccola (precisiamo fino agli 11 anni, non di più) amavo, anzi AMAVO Baglioni. Il mio primo concerto al Forum è stato il suo. Palco al centro, Baglioni e pianoforte. Beh, ammetto di aver rinnegato a lungo questa mia passione giovanile ma, a voi mi sento proprio di dirlo: a 34 anni mi sono ritrovata a cantare tutta la canzone dalla prima all’ultima parola. Certo che la mia memoria regge ancora…. 
  3. “Anna e Marco”, Fiorella Mannoia e Giuliano Sangiorgi: hanno così tributato all’emiliano per eccellenza Lucio Dalla. Le loro voci sono incredibili, e, seppur con qualche pecca, sono riusciti a rendere notevole la loro versione.
  4. “Tex”, Litifiba e Ligabue: ecco come mi sono avvicinata al rock, con i Litfiba di “Gioconda”, “Maudit” e “Tex” e  il vecchio Ligabue di “Anime in Plexiglass”, “Marlond Brando è sempre lui”, “Ti chiamerò Sam (se suoni bene)”. Rivederli insieme, in una versione, se non impeccabile, di sicuro travolgente di “Tex” mi ha fatto venire una gran voglia di rispolverare vecchie cassette e di cantare a squarciagola “Se la speranza è l'ultima a morire: chi visse sperando morì, non si può dire” (cit. da “Gioconda”).
  5. Jovanotti ed Elisa, per la loro generosità nel lanciarsi in duetti anche improbabili (Jovanotti e Renato Zero in versione reggae?!) con la maggior parte dei loro compagni di palco.   
    Quando il piacere non è essere lo spettacolo ma è solo farne parte. 

     Soundtrack: "Madre dolcissima", Oro incenso e mirra, 1989

sabato 13 ottobre 2012

Recensione #24: I miracoli di Val Morel

Un "testamento umano, artistico e spirituale"

Disegnare e scrivere per me in fondo sono la stessa cosa.
(Dino Buzzati)

Anche se avrei moltissimo da dire, stavolta vorrei cercare di essere breve.
In effetti, credo che queste immagini da sole bastino a convincere che I miracoli di Val Morel merita di essere almeno sfogliato.
Tuttavia il mio dovere di (re)censore mi impone di dire almeno due parole.




I miracoli di Val Morel è l’ultima opera di Dino Buzzati, uscita nel novembre del 1971, cioè tre mesi prima della morte dell’autore.
La genesi del libretto è abbastanza interessante, e peraltro dettagliatamente presentata da Lorenzo VIganò nella postfazione. A quanto pare, prima di essere un libro, questi miracoli erano una mostra. Cioè, una serie di quadri, realizzati da Buzzati per la galleria veneziana del collezionista Renato Cardazzo. L’esposizione fu un successo, e lo scrittore si convinse a trasformare il catalogo in un libro: riorganizzò il materiale, ad ogni illustrazione unì una brevissima spiegazione, e soprattutto creò l’espediente letterario del quadernetto ritrovato nella biblioteca del padre, contenente una quarantina di incredibili ex voto che illustrano altrettanti miracoli di Santa Rita. La prefazione di Montanelli, infine, diede il giusto lustro all’insieme.

Il risultato è un meraviglioso racconto “risolto più con le immagini che con le parole”. Da queste pagine, Buzzati affronta, in modo solo apparentemente innocuo, i suoi temi più cari e più scottanti: dall’attesa alla morte, dall’angoscia alla paura. Con il suo tono da cronista impassibile, l'autore descrive i mostri, le calamità e i fenomeni che ha disegnato. Al lettore non resta che riconoscere e apprezzare, dietro la limpidezza del tratto e i colori sgargianti, le immagini e i temi che ha imparato ad amare in tanti racconti.

giovedì 4 ottobre 2012

Evento #5 Un'oretta al Museo di Storia Naturale


Oggi, dopo troppo tempo, sono finalmente riuscito a tornare al Museo di Storia Naturale (in corso Venezia, appena dentro ai giardini pubblici).

L’occasione per questa visita mi è stata fornita dalla nuova mostra intitolata: “Le piccole conchiglie che crearono il tempo” (dal 28 settembre al 21 ottobre). Purtroppo l’esposizione si è rivelata una mezza delusione: la mostra, infatti, si sviluppa in un’unica sala in cui i cartelli esplicativi sono più numerosi delle conchiglie.

L'esposizione presenta i luoghi e i fossili studiati dal famoso geologo Charles Lyell (1797-1875), che gli permisero di formulare alcune delle sue teorie più importanti, come quella sull'età della Terra, molto più antica di quanto non si fosse ipotizzato fino ad allora, sulla base di interpretazioni  letterali della Bibbia.

Visitare la mostra mi ha richiesto appena 5 minuti, molto piacevoli, ma veramente troppo pochi per valere il prezzo del biglietto, peraltro assolutamente abbordabile: 3€ (1,50 € ridotto).Perché allora non visitare l’intero museo? Lo conosco a memoria ma è sempre piacevole perdersi nell'atmosfera di domestico mistero che solo le particolarità della Natura, racchiuse in un ambiente così solenne e originale, possono suscitare. E così eccomi a girare tra  minerali dai colori sgargianti e dall'incredibile perfezione geometrica; a viaggiare nel tempo osservando i fossili di tutti gli animali che hanno abitato il pianeta. E tutto questo senza uscire dal centro di Milano!

Per cui vi consiglio vivamente di visitare il museo. In un’oretta lo vedete tutto. Ma andateci adesso che, oltre alle piccole conchiglie e alle varie permanenti,  potete vedere ancora la mostra dei crani degli animali del mondo, dove sono esposti tra l’altro alcuni reperti veramente curiosi come la zanna del narvalo o il teschio di un cane simile al chihuhua.


Confesso che mi piacerebbe tantissimo lavorare nel Museo di Storia Naturale. Se potessi cercherei di rendere il percorso un po’ più interattivo. Si potrebbe, per esempio, dare la possibilità ai visitatori di osservare delle sezioni sottili (fette di roccia così sottili da essere trasparenti) al microscopio. Un semplice pezzo di marmo rivelerebbe uno spettacolo sorprendente!

mercoledì 3 ottobre 2012

Recensione #23: Non rimanere soli


Il bottino di un venerdì sera

Il primo a credere nelle storie che racconto sono io. Il lettore scettico leggendo una mia novella può pensare che sono tutte fantasie.
Per me che scrivo quella novella è «vera» come le storie e le persone vere che mi vivono intorno.

La mia fama di letterata comincia a dare i suoi frutti: venerdì sera, nel bel mezzo della sua festa a sorpresa, Michi ha trovato il tempo, in nome della mia grande cultura, di rovesciare sul tavolo della cucina un intero scatolone di libri doppi che custodiva in casa e di dirmi che potevo prendere quello che volevo. Me ne sono portati via quattro, solo per non far infuriare mia madre, che tra un po’ dalla mia camera, pur di fare posto ai libri, esco io.

Tra questi quattro, c’era anche Non rimanere soli, di Scerbanenco. L’ho cominciato già sabato mattina, incuriosita dall'entusiasmo di Michi e da vaghe reminiscenze universitarie.
Devo dire che sono rimasta stupita. Mi aspettavo una specie di giallo anni quaranta, e invece sono incappata in una storia d’amore e guerra e soprattutto di solitudine. O forse di come l’amore possa sconfiggere la solitudine e la guerra possa sconfiggere l’amore.
Federico, Giovanni e Mutti sono tre anime sole, che si incontrano, per un breve tempo sono felici, e al momento della storia sono drammaticamente separate dalla guerra. L’opera è divisa in tre sezioni, che raccontano, rispettivamente, una notte dei tre protagonisti.
La narrazione ovviamente non è così lineare: nelle prime due parti, è costruita sull’usurato meccanismo del flashback, mentre nella terza è concentrata sul presente, e apre, nella conclusione, un pallido spiraglio sul futuro.
La morale è presto detta, ma per coglierla bastava leggere il titolo. Sembra di vedere Into the wild: “la felicità è reale solo se condivisa”.
Cosa rimane di buono? L’andamento scorrevole, soprattutto nella parte dedicata a Federico. Il ritmo delle frasi. Qualche riflessione sul rapporto uomo-donna.

Tutto qui? No, direi di no. Ma faccio fatica a razionalizzarlo finché, terminato il romanzo, non mi avvento anche sul nutrito paratesto della mia edizione (gli Elefanti di Garzanti): “Giorgio Scerbanenco: una cronologia” (a cura di Nunzia Monanni, ultima compagna dello scrittore), e la prefazione di Ermanno Paccagnini.
Soprattutto la prima mi è stata di grande aiuto: si tratta sostanzialmente di una nutrita biografia dell’autore, accompagnata dagli articoli che egli stesso pubblicò sotto il titolo Viaggio di una vita su «Novella» nel 1958. Da queste pagine ho scoperto che Non rimanere soli è in buona parte un romanzo autobiografico, soprattutto nella parte dedicata a Federico. Come il suo creatore, infatti, Federico è alto, autodidatta, pieno di sensi di colpa verso una madre malata, innamorato prima di una certa Milla Clas, e poi di una certa Mutti dai capelli rossi, rifugiato in Svizzera durante la guerra… Si direbbe che l’autore, componendo quest’opera, abbia inventato ben poco.
Cosa ne dovrei concludere? Che Scerbanenco manca di inventiva, che a sbrodolare i fatti propri sono bravi tutti? Che quello di raccontare la propria vita cambiando i nomi (qui tra l’altro l’autore non si scomoda neanche a cambiarli tutti) è un trucco usurato e poco onesto?

No, non direi. Almeno non stavolta. Perché questa storia ha dentro qualcosa di onesto, qualcosa che ha il sapore di una confessione… Ma non una confessione piena di rimpianti e commiserazione. Piuttosto un racconto lucido su qualcosa di sentito, di conosciuto da dentro.
E allora perché non raccontarlo. Questo qualcosa di vero si sente, al di là di qualche debolezza della trama.

Diciamo che adesso vorrei sapere come Scerbanenco abbia affrontato gli altri (numerosissimi) romanzi… Penso che presto attaccherò  Venere Privata per togliermi la curiosità!