venerdì 29 giugno 2012

Evento #2: Don Giovanni a Verona


I geni stanno sulle gradinate 
(di Stefano Coco)



Per prima cosa ringrazio Giulia per la disponibilità ad ospitarmi nel suo interessantissimo blog.

Per seconda ti racconto, caro lettore, cosa ho visto (e sentito) all'Arena di Verona venerdì scorso. Innanzitutto mostrini, paillettes, un numero incredibilmente alto di farfallini, ministri, industriali, tutti agghindati per esibire la propria abbronzatissima presenza alla Prima. Totale l'annientamento dell'estetica. Ma non basta. Un pubblico così incompetente da essere degno della giuria demoscopica sanremese non ha fatto altro che interrompere continuamente con inopportuni applausi lo svolgimento dell'opera, tra arie, cavatine e recitativi, addirittura talora sovrastando col fragore del battito delle mani il già fiochissimo accompagnamento orchestrale. Notiziari locali riportano lunghissime code fuori le guardie mediche per illustri ustioni alla pelle causati da frequenti sfregamenti da applauso.  
A questo aggiungi, caro lettore, la regia di Zeffirelli. Lo spettacolo è Don Giovanni, dramma giocoso nelle parole di Mozart. Il famoso libertino ne combina di tutti i colori, seduce tutte le donne che incontra e alla fine, a causa della sua vanagloria è ricacciato all'inferno (ma Zeffirelli lo fa inghiottire da una statua). Ti aspetteresti la classica commedia degli equivoci, le peripezie, gli inganni, la furbizia. Invece sulla scena è tutto giocato sulla psicologia dei personaggi, e troppo poco sull'intreccio. 

Manca al regista toscano il gusto per il motto arguto, per la battuta fulminante, per lo scherzo verbale. Manca al regista toscano, soprattutto, il ritmo, fondamentale per divertire o almeno intrattenere (ma anche commuovere). La continuità narrativa è completamente annientata da un numero incredibile di pause di scena (mi sembrava di vedere un film su Canale5 e temevo che spuntasse Mastrota da un momento all'altro), giustificate neanche da cambi di scenografia. Aneddoto: metà del secondo atto, all'ennesima pausa (che al pari delle altre registrava un sospiro di sollievo da una parte cospicua del pubblico, che erroneamente riteneva di avere adempiuto ai doveri della società), una voce dalle alte gradinate: “Zeffirelli! La regia è ritmo”. I geni acquistano biglietti di gradinata non numerata.  
Bellissime, invece, le scene corali, vero e proprio must di Zeffirelli. Ancor più bella la scenografia, capace camaleonticamente di modificarsi per rappresentare luoghi molto diversi attraverso il semplice mutamento di alcuni drappi sospesi. Eccellenti le luci, che esaltano il momento “infernale” della penultima scena. I costumi che ti aspetteresti.

“Zeffirelli, la regia è ritmo!”. 


martedì 26 giugno 2012

Film #3: Cosmopolis

Su Priscilla (doverosa premessa)

Come i lettori più attenti avranno certamente notato, nelle ultime settimane Nefelomanzia ha ospitato i contributi di diversi personaggi. È in effetti politica di questo blog accogliere con entusiasmo ogni forma di collaborazione. Fino a qui, i contenuti di questi coraggiosi volontari sono stati presentati senza troppe domande e senza presentazioni. Tuttavia, non me la sento di far comparire la prima recensione di Priscilla senza neanche una parola di spiegazione, e forse di celebrazione del momento.

Quando ho proposto a Priscilla di collaborare a questo progetto, sinceramente, non credevo che avrebbe accettato.
Priscilla è un personaggio sensibile, ma incredibilmente schivo. Nessuno conosce la sua vera identità, perché a tutti si presenta con un nome diverso. Tutti la reputano incredibilmente intelligente, ma, se ci pensano, non sanno dire perché. Priscilla infatti, contrariamente alla prassi dei nostri giorni esibizionisti, non ci tiene affatto a mostrare le sue doti. Al contrario: ogni volta che parla, sembra sul punto di rivelarti un segreto, ma poi, ogni volta, sembra che decida di tenerselo per sé. E a te che la ascoltavi rimane il dubbio di non aver saputo cogliere il senso profondo delle sue preziose parole.
Anche questo post è così. L’ho intitolato recensione, perché non sapevo come altro definirlo. Ma non aspettatevi un commento, o una spiegazione tecnica. In queste poche righe Priscilla allude alla storia, racconta la sensazione, plasma la materia. Se vi aspettate un resoconto oggettivo, ignorate Priscilla e aspettate la prossima settimana. Se invece volete lasciarvi suggestionare, andate avanti a leggere.
Secondo me, ovviamente, ne vale la pena.


Cosmopolis
(di Priscilla)

Se vuoi attraversare la città devi mettere in conto di impiegare una intera giornata. Il Presidente degli Stati Uniti si sta spostando e il traffico ne risente. Puoi decidere di muoverti a piedi, o di corsa: pensando agli affari tuoi, un asciugamano sulle spalle e il tuo cantante preferito nelle cuffie (ma è una di quelle giornate in cui nemmeno lui può esserti di gran conforto). Quando sei stanco puoi fermare un taxi e farti portare; qui gli autisti provengono da cento Stati diversi e dalle conversazioni impari ogni volta qualcosa. Tua moglie lavora in questo isolato, potresti anche incontrarla e pranzereste insieme, ma devi trovare un posto adatto - chissà perché vuole sempre mangiare da sola con te. Stasera comunque sarà a teatro. 

Improvvisamente decidi che nonostante il traffico vuoi servirti della tua macchina e del suo pilota automatico per muoverti nella città. I vetri sono oscurati e se incrocerai una delle manifestazioni che stanno ingorgando le strade potrai in fondo aspettare che passi, come con la pioggia. Controllerai dopo che non si sia rotto niente, e se occorre la ricomprerai. È sera, e nei campi recintati i ragazzi giocano: ti piace il basket, e non ami che ti stiano troppo addosso. Il tuo barbiere, ecco, è l'unico uomo a cui permetti di avvicinarsi a te. È per lui che hai fatto tutta questa strada, anche se come barbiere non è nemmeno tanto bravo. Giornata densa. Hai fatto qualche progresso e hai accettato qualche intoppo, ma poi ti accorgi che hai soltanto seguito il ritmo scandito dei semafori. Hai attraversato la città per scoprire infine dove si parcheggiano di notte le limousine come la tua.

lunedì 25 giugno 2012

Giorni e nuvole #6


Vale. L’Australia


La cosa che mi manca di più è la mia stanza.
Ci penso ogni mattina, quando mi sveglio e mi alzo cercando di non svegliare Paolo, che ha lavorato fino a ore assurde nel suo centro sociale per liceali impegnati.
È paradossale perché, tecnicamente, la mia stanza è quella in cui abito ora. E lo è stata sempre, tranne che per gli undici mesi, quattro settimane e due giorni in cui ho dormito dall’altra parte del mondo. Eppure solo lì, in Australia, ho sentito di abitare in uno spazio che potessi definire mio. Forse dipende dalla convivenza forzata e vagamente disagevole con mio fratello, forse dalle incursioni invadenti di mia madre e del suo roboante aspirapolvere delle 8 di mattina, non lo so. Ma la verità è che, da quando sono tornata, aprire gli occhi tra queste quattro mura, e forse in questo emisfero, mi sembra ogni giorno più difficile.
Mi vesto nel bagno pieno di creme e dentifrici e medicine dei miei, e valuto con tristezza che là avevo anche un bagno tutto per me, con piastrelle luminose e una finestrella rotonda sul mare.
Esco dalla doccia e constato che non so come ho fatto tardi, ma che tanto non ho niente da fare; così mi ricordo che là invece, nonostante le mille occupazioni, ero sempre puntuale. Che non avevo mai nessuna fretta e nessuna ansia.
Mentre aspetto che salga il caffè, accendo il computer. Potrei dire che è per cercare lavoro, o per guardare le notizie e tenermi informata, ma la verità è che lo faccio per noia. Non posso neanche dire di essere curiosa. È per noia, che non riesco mai a finire di leggere gli articoli; per noia, che spio per interi quarti d’ora le vite degli altri su Facebook. La mia dipendenza da Internet, ormai, sta assumendo proporzioni patologiche. Eppure non sono mai stata una che passava le giornate al pc. A Sidney, per esempio… Ma non mi va di deprimermi ancora. Scaccio decisamente il ricordo di quella routine piena e soddisfacente e do inizio al mio tour quotidiano di visite telematiche. È che concentrarsi davanti al computer è difficile. E poi la connessione è lentissima, e mentre si caricano le pagine vuoi non andare a guardare se per caso – e in realtà non è quasi mai così, nonostante i più di 600 amici – qualcuno ti ha scritto?
Scorro svogliatamente le numerose offerte di stage full time non retribuiti di un sito qualunque; sto già per chiudere e passare ad altro, quando due magiche paroline attirano la mia attenzione: rimborso spese. Il cuore ha un sobbalzo, quasi non ci credo. In un attimo divoro l’annuncio e faccio due calcoli: sei mesi a 500 euro, nell’ufficio stampa di una multinazionale a… Torino? In effetti è un po’ lontano, ma tentar non nuoce. Invio curriculum e lettera di presentazione e per un attimo mi sento sollevata come se avessi buone possibilità di dare una svolta alla mia vita. Come se questa proposta non fosse un insulto, come se non mi ricordassi che dall’altra parte del mondo il lavoro perfetto per me c’era e c’è ancora, e che altri ragazzi in questo preciso momento stanno seduti nel mio ufficio e abitano la mia casa e dormono nella mia stanza…
Bene, forse è il caso di sospendere temporaneamente la ricerca. Con lentezza esasperante riesco ad abbandonare la mia postazione informatica, giuro che per stamattina con la tecnologia ho chiuso, e mi decido ad affrontare il tragitto verso il supermercato. In fondo –  come mia madre non manca di ricordarmi ogni mattina  – visto che le sono tornata sul groppone e che non accenno a contribuire in alcun modo alle spese della famiglia, posso rendermi utile almeno andando a far la spesa.
Ma anche questa incombenza è, proprio come il risveglio, un’abitudine più che fastidiosa.
Quelli che dicono che Milano è una grande città probabilmente non sono di Milano. E probabilmente non abitano nella mia zona. Da quando sono tornata, ho l’impressione che tutti mi conoscano, mi fermino, e mi chiedano cosa sto facendo, ora che finalmente sono a casa. Con le loro inutili chiacchiere superficiali, mi costringono a confessare ogni giorno che la studentessa modello estrosa e simpatica, quella che tredici mesi fa è partita per l’Australia in cerca di avventure, si è trasformata in una disoccupata venticinquenne che si trascina per la strada in tuta, carica di squallidi sacchi della spesa.
Oggi poi il destino sembra particolarmente crudele. Va bene, dei capelli sporchi e del look trasandato sono assolutamente responsabile, ma l’incontro con la mamma della migliore amica delle medie (che ovviamente ha fatto la Bocconi, non ha perso tempo a scoprire le bellezze degli altri continenti, e si è accaparrata un buon contratto in un’azienda sicura) veramente mi sembra una beffa. Non la vedevo da anni, non sono neanche sicura che abiti più in zona, cosa ci fa nel mio supermercato? Evito il contatto, rifugiandomi nel banco surgelati. Ma qui, intenta a valutare con morbosa attenzione alcune irrisorie offerte sui 4 Salti in padella, vedo la nuova fidanzata del mio ex. Quello che ho lasciato prima di partire, che nonostante si sia consolato con questa ragazzina dai capelli ossigenati e l’aria timida, continua a mandarmi mail d’amore. E sospetto che la giovane dark qui  accanto lo sappia e che mi spii, perché i suoi commenti su Facebook tradiscono una certa insofferenza per quelle che lei definisce astiosamente le “australiane”… Superato lo sconforto, e maledetto nuovamente questo inferno, decido che il male minore è sicuramente la mamma dell’amica d’infanzia. Riemergo dal banco frigo e vado incontro al mio destino, tuffandomi con indiscutibile masochismo nella sua permanente congelata, e iniziando volontariamente la conversazione meno interessante della vita.
Bentornata, come stai, cosa stai facendo. Rispondo al suo assalto di domande cercando di non sembrare disperata, ma evidentemente non ci riesco granché bene: nei suoi occhi tirati, dietro gli occhiali da sole che inspiegabilmente indossa anche al chiuso, leggo addirittura un’ombra rivoltante di pietà. Perfetto, proprio quello che volevo evitare.
Ma in realtà, devo dire che la casalinga rampante per una volta si comporta meglio di tanti altri esemplari del quartiere. Invece di propinarmi qualche consiglio buonista o impraticabile su come trovare un lavoro sicuro e ben pagato in tre semplici mosse, mi racconta che la sua vicina di casa cerca una ragazza che insegni un po’ di inglese alla sua svogliata figliola tredicenne. Io sono praticamente madrelingua, no? Quindi potrei provarci, no? Perché non le do il mio numero? Così poi mi fa chiamare. Fantastico, stasera la vicina mi telefonerà sicuramente. Conclude la sua surreale apparizione auspicando un riavvicinamento sotto forma di aperitivo tra me e la sua Rossella, che lavora sempre troppo, e se ne va, che sono già le dodici e dal macellaio ormai non ci sarà più niente.
Io rimango sola in mezzo al corridoio. Volto le spalle ai surgelati e stranamente mi sento un po’ meglio: l’Australia continua a sembrare un miraggio, ma se non altro, forse, domani eviterò il supermercato.  

lunedì 18 giugno 2012

Giorni e nuvole #5


Matteo. L’ultima sigaretta


L’ultima sigaretta è così: te la accendi sotto casa, a fine serata. Anche quando sei troppo stanco per parlare, ridere o pensare, prima di salire, ti ritagli ancora due minuti. Hai imparato a farlo al liceo, e anche oggi questi due minuti per te stesso ti sembrano un bel modo per finire la giornata.
Poi capita che sotto casa, nei tuoi due minuti per te stesso, certe volte passi Paolo, il compagno di giochi dell’infanzia, il vicino di casa di una vita. E capita che Paolo, se non è troppo ubriaco (o se non lo sei tu, e non è raro che invece uno di voi due lo sia) abbia voglia di fermarsi a chiacchierare. 
Così, sotto il cancello, certe volte capita che siate in due.

Questa sera, per esempio. Hai fatto chiusura al pub, e poi sei rimasto fuori, a parlare coi camerieri, macinando la notte a suon di birre. Col drummino che si spegneva sempre più spesso, perché a un certo punto non eri più granché lucido, e ti dimenticavi di fumarlo.

Così adesso sono le tre e mezza e tu sei ancora un po' ubriaco, ma lo stesso non ti sei levato dalla testa Adele. Quella fastidiosa aria di superiorità mentre ti spiegava quante cose belle e inutili sta facendo nella sua preziosa quotidianità radical chic. Testa di cazzo. Dopo dieci mesi di lavoro orario continuato voglio vedere se hai ancora voglia di insegnare teatro ai ragazzini.
Che poi tanta fatica per cosa: dopo quasi un anno da studente lavoratore, con tutti gli sbatti annessi e connessi, dopo il terzo contratto a progetto, decidono di segarti e tanti saluti. E non gliene fotte un cazzo di quanto ti sei fatto il culo, di quante cose hai trascurato nel frattempo. E così, con la tua bella laurea in tasca, dopo una cosiddetta “esperienza lavorativa qualificante”, devi ancora chiedere a tuo padre i soldi per uscir la sera.

Per fortuna però, proprio quando la sbronza si sta facendo troppo triste, quando stai per tirar fuori perfino il fantasma delle ex, che ti hanno lasciato perché lavoravi troppo, sotto il portone arriva Paolo.
«Oi ce l’hai una sigaretta?»
Ha il suo sorriso storto migliore, e gli occhi ancora sufficientemente svegli.
Gli offri il tabacco: «Fatto serata anche tu eh?»
«Macché serata! Questo è duro lavoro.» E ride.
Tira su il drum guardando altrove e ti racconta come sta: come sia la vita a lavorare in un centro sociale, e quanto è stronzo l’assessore, e quanto però non vorrebbe fare niente di diverso.
Fa due tiri lunghi in silenzio, poi cambia argomento: «E tu? Cazzo ci fai qua sotto a quest’ora? Non vai al lavoro domani?»
Gli sorridi della confidenza di quest’ora, quella confidenza che prima con Adele non hai trovato: «Non mi han rinnovato.»
E Paolo ricambia con un dispiacere superficiale ma onesto, un dispiacere che Adele non avrebbe avuto:
«E adesso?»
«Adesso sto cercando, ma ovviamente non mi chiama nessuno.»
«Chiaro.»
Altra pausa. Ti riaccendi la sigaretta spenta.
«È che vorrei andarmene da casa dei miei, ma finché è così è impossibile.»
«Lascia stare, io ci ho rinunciato. Ho ventisette anni e almeno per altri tre non se ne parla.»
Ma Paolo non sembra triste. Sembra che si sia messo il cuore in pace, che aspetti pazientemente tempi migliori.
«O se no fai come mia sorella. Te ne vai in Australia un anno; impari la lingua, ti fai l’esperienza, e non ci pensi per un po’.»
La Vale. Da quant'è che non la vedi? Giocavate tutti e tre, in cortile. Pomeriggi assolati eterni in uno scenario sfocato che neanche i peggio film anni Novanta.
Senza pensarci, dai voce alle nostalgie: «Mi piacerebbe rivederla. Dovremmo uscire qualche volta.»
Lui ti guarda e scoppia a ridere. E in fondo lo sai anche tu che le rimpatriate sono sempre una merda.
«Senti io me ne vado a letto.»
Butta la cicca nel cestino.
«Mi ha fatto piacere vederti.»
«Anche a me.»

Paolo entra in casa, e tu rimani solo. E sostanzialmente cominci anche a sentirti un po’ un pirla, a startene sui gradini di casa senza voglia di entrare. Ma, sarà l’alcol la stanchezza o il fumo, finalmente ti sembra che vada un po’ meglio. Ti sembra che, se non vai a letto, non è perché sei troppo incazzato per dormire, ma perché ti va di goderti ancora un po’ il momento: è primavera, l’aria è fresca e la via silenziosa. Domani sarà un’altra giornata di niente, ma non importa. Adesso non stai male. Riaccendi la sigaretta; alla fine del giorno, nei tuoi due minuti sotto il portone, non stai male. E forse basta.


sabato 16 giugno 2012

L'angolo di Tita #1

Mistero buffo (senza mistero)

(di Tita)

Piccolissima premessa: sono un’aspirante collaboratrice, finora lettrice nell’ombra, che cercherà di fornirvi qualche resoconto delle sue esperienze artistiche e culturali, giusto per restare in tema. Il punto è che la pigrizia e la paranoia spesso avranno la meglio sulla mia produttività. Dunque siate pazienti e fiduciosi: prima o poi tornerò! (nel caso in cui speriate il contrario… allora state tranquilli: non sarà così frequente!!!

Faccio capolino con la mia prima incursione per parlare, con un po’ di rammarico, dello spettacolo che ho visto mercoledì sera allo Strehler: il Mistero buffo, del vincitore del Nobel per la letteratura Dario Fo, nella versione “pop 2.0”. Con una premessa simile, mi sembrava quantomeno doveroso dargli una chance.La versione in questione è, però, la rivisitazione di Paolo Rossi; dunque, purtroppo, non potrò rivolgere le mie critiche all’originale, che aveva attirato la mia attenzione e mi aveva spinto ad acquistare i biglietti (senza poi trovare nessuno disposto ad accompagnarmi, tanto che ho costretto il mio “fratellino” a farmi da cavaliere... ma questa è un’altra storia!)
Premettendo che non amo il teatro comico, o meglio, che un comico deve essere davvero bravo per convincermi, lo spettacolo di ieri è stato piuttosto divertente. Tutto qui? Direi quasi.
“Se Gesù Cristo tornasse oggi chi sarebbe? Saremmo in grado di riconoscerlo e seguire la sua rivoluzione?”… questo recitava la locandina. Mi aspettavo di uscire da teatro con quel misto di sconcerto e imbarazzo che si prova quando si assiste a qualcosa che con acutezza ci pone di fronte alle nostre celate meschinerie, minacciando le piccole certezze con cui ci proteggiamo. Ero pronta a tornare a casa in silenzio, meditabonda e un po’ stordita, con la testa bombardata da mille stimoli.
Niente di tutto ciò.

Unica eccezione per cui mi sento di spendere subito parole di ammirata approvazione è stato l’intervento tragico di Lucia Vasini (bravissima!) tratto dall’originale di Fo e Franca Rame: una scena in un milanese reinventato in cui la Madonna al Calvario cerca disperatamente di salvare il figlio dal sacrificio in croce, arrivando a sfogare contro l’arcangelo Gabriele, disonesto messaggero, la sua umana sofferenza.
Il resto dello spettacolo è un susseguirsi di episodi serio-comici ispirati ai vangeli apocrifi, infarciti di citazioni pop e ammiccanti a (o meglio, che richiamano esplicitamente) episodi della più tristemente nota attualità politica. Ecco, Rossi (che non avevo mai visto in scena) è indubbiamente molto bravo, lo spettacolo ha ritmo e tiene viva l’attenzione per due ore, strappando sincere risate anche al più ostile spettatore.
Nonostante ciò, la comicità, certo sopra la media dei cabaret televisivi, finisce per scadere nella satira più prevedibile dei vari Rubygate. E, benché lo faccia con ironia, non propone niente di più dei triti motivetti poveri-contro-ricchi, tanto in voga in un momento di crisi, e l’Italia non è un paese per onesti. Direi che questo è sufficiente a motivare il mio disappunto: se Gesù Cristo tornasse oggi credo avrebbe qualcosa di più da dirci, che la sua critica al nostro mondo sarebbe ben più sconvolgente e forte di quella di Paolo Rossi, che, in fin dei conti, si limita a far ridere con la solita furberia di chi si mette il berretto del giullare per criticare i potenti, ma non scalfisce di un millimetro la nostra beata (anche in tempi di crisi) cecità.

P.S. Per quanto riguarda l’originale, mi riservo in futuro di accanirmi su registrazioni d’epoca, sperando di trovarci un po’ di mistero!

giovedì 14 giugno 2012

Incursioni musicali: episodio #8


Quando inizia l’estate? 

I saggi risponderebbero il 21 giugno.  I nostalgici, la farebbero coincidere con la fine della scuola. I  pragmatici andrebbero a scomodare la meteorologia. I “più pragmatici” direbbero un banale “Estate inizia quando io sono in vacanza”. I cinefili  controllerebbero quando nel palinsesto televisivo compaiono i vari film di Don Camillo e di Totò. Gli appartenenti al sesso maschile, ammiccanti, si dilungherebbero in dissertazioni sulle canottiere del gentil sesso come indizio ultimo dell’inizio della stagione più calda.
 
Io, che notoriamente non appartengo a nessuna delle categorie sopra citate, un tempo avrei candidamente  risposto:  “ L’estate inizia il giorno della prima puntata del Festivalbar”.

Ma adesso, se non viene siete accorti, il Festivalbar non esiste più! 

I cultori della buona musica (ed io, modestamente, mi includo in questa categoria), non soffrono di certo per la mancanza di una rassegna  musicale il cui unico scopo era quello di incoronare ufficialmente il tormentone estivo che, in questo modo, si guadagnava la possibilità di  tormentarci all’ennesima potenza.

La questione vera è che ora non riesco più delimitare il tempo estivo con chiarezza : il Festivalbar aveva il valore del “cambio dell’armadio”!

L’idea di scrivere un post che cercasse di rispondere alla domanda in oggetto mi balenava da tempo.  Il  vero problema (ed è il motivo per cui ho atteso un po’ prima di scriverlo) è che non trovavo una risposta convincente da dare. 
Poi….

Sabato mattina. Primi giorni di giugno. Aria e cielo novembrini (strano?) La temperatura percepita di 17° costringeva la mia mente a tormentarsi con vigore (eufemismo!) ed insistenza (altro eufemismo!) su quando sarebbe arrivata l’estate!
Anche questa volta la riproduzione casuale del mio lettore mp3 mi è stato d’aiuto. 

Jack Johnson. Ed ecco la risposta: ora inizia l’estate, dura circa 4 minuti, il tempo di una canzone,  chitarra, voce calda di un cantante-surfista hawaiano  e musica da falò sulla spiaggia (per parafrasare il titolo del suo primo album “Brushfire fairytales”). Altro che Festivalbar!

A ben vedere, si può ragionevolmente dire che il buon Jack non spicca per varietà musicale. E’ condivisibile   l’opinione che le sue canzoni si assomiglino un po’ tutte (non per altro non ricordo quale brano mi avesse trasportato nella mia estate della durata di 4 minuti). 

Ma che male c’è? Non mancano certo musicisti virtuosi e sperimentatori, di cui riusciamo comunque a lamentarci per l’eccessiva ricerca e volontà di stupire il pubblico che, immancabilmente, finisce per rinnegarli.  

Il mio suono dell’estate sono, così,  canzoni rilassate e rilassanti, senza alcun eccesso, con annesso l’odore di oceano e il respiro delle onde. La mia estate  è la voce calda e ampia di Jack, è il suono genuino della sua chitarra solista. 

E la vera magia è che quando i 4 minuti di estate sono finiti ciò che rimane sulla pelle, oltre al profumo salmastro del mare,  è un solare senso di leggerezza e l’impressione che sia giunta l’ora di un nuovo tempo. 


Soundtrack: “Taylor”- On and On, 2003

lunedì 11 giugno 2012

Giorni e nuvole #4


Adele. Il volontariato

In fondo sapevamo che sarebbe stato così.
Io, per lo meno, ero pronta. Me l’avevano detto, e io ci avevo creduto: la laurea in Antropologia non garantisce un lavoro a nessuno.
Ci ho creduto, e ho deciso di farlo lo stesso. Perché di rinunciare al mio sogno prima dei vent’anni mi sembrava veramente troppo triste.
E in fondo neanche adesso, con il mio pezzo di carta tra le mani e nessun fondo a cui attingere per portare avanti le mie ricerche sui Pigmei, mi pento della decisione.
Si tratta solo di organizzarsi, e le giornate possono essere soddisfacenti anche se non hai un lavoro.

Oggi, per esempio.
Sono le 7.53, ho esattamente sette minuti per la colazione (caffè biscotti e succo, ho bisogno di energia, sarà una giornata lunga), dodici minuti per la doccia, e ventitre per il mio cane. Lo riporto a casa, tempo di prendere la borsa, chiudere casa e sono le 8.30. Fino a qui sono in perfetto orario. Prendo l’autobus al volo, e comincio la lunga trafila degli impegni di oggi.
Alle 9.15 arrivo al centro, appena in tempo per aprire. Due rifugiati mi aspettano davanti alla saracinesca chiusa. Ricaccio la compassione dietro un bel sorriso, e prima di qualunque frustrante trafila burocratica li porto a bere un buon caffè.
Alle 12.15, dopo tre pratiche per il riconoscimento del diritto d’asilo, due tisane e molte chiacchiere benefiche, sono pronta per andare. Saluto i rifugiati e vado a prendere l’autobus, stavolta verso Città Studi, per il corso di letteratura russa. Praticamente c’è questa ragazza madrelingua bravissima, Anja, che tiene una specie di seminario per tutti quelli a cui interessa Dostoevskij… e a me Dostoevskij interessa eccome. E poi è pure gratis.
Mi fermo dal panettiere, pago due euro per una focaccia fredda, che mi gusto tranquillamente sui seggiolini fuori dall’aula, pensando che se avessi un lavoro stabile tutto sommato non avrei tempo di studiare Dostoevskij. Una deve saper vedere i lati positivi di tutte le situazioni, no? Ed è esattamente quello che sto facendo io. Io li odio quelli che si piangono addosso e si lamentano del fatto che non hanno niente da fare. Di cose da fare ce ne sono sempre anche troppe. Ah, ecco l’insegnante, finalmente si comincia.
Dopo la lezione, mi fermo a parlare con Anja. Ho ancora una domanda sui Fratelli Karamazov, e poi almeno venti su di lei: cosa l’ha spinta a venire in Italia a studiare, come si trova? E come mai tiene un corso gratuito di letteratura russa? Ovviamente si finisce a discutere di politica e di precariato. Ovviamente mi accaloro, e non mi accorgo che sto facendo tardi. Alle quattro devo essere al teatro per il corso di teatro dei bambini. Faccio teatro da quando ho dieci anni; mia zia era un’attrice abbastanza famosa e mi ha insegnato tutto. Quest’anno, con la mia compagnia, stiamo allestendo uno spettacolo su Carver che mi piace molto. È un lavoro sullo straniamento prodotto dal benessere eccessivo della società occidentale. Mi dà tantissimi stimoli, anche per il confronto coi rifugiati. Anzi, devo ricordarmi di parlare col regista della possibilità di collaborare con loro, per arricchire il testo di qualche suggestione.
Be’ comunque ora devo concentrarmi sui bambini. Sono le 16.06, sei minuti di ritardo sono ancora accettabili. Loro sono già tutti lì, con le calzine antiscivolo sul pavimento freddo del palco. Hanno voglia di cominciare, e anch’io ne ho parecchia.
Esco dal teatro che è già buio. Mi sono fermata a parlare due ore col direttore, preoccupatissimo per la crisi e il calo degli abbonamenti. Cercava degli stagisti… gli ho detto che se mi viene in mente qualcuno lo chiamo. Ora però devo correre: sono le 19.33, devo andare a casa, farmi una doccia, portar fuori il cane e intanto chiamare mio padre, e poi uscire, perché oggi è il primo giovedì di primavera, e proprio non vorrei perdermi il Critical Mass.
Poi non sempre tutto va come dovrebbe, ma non importa. La telefonata con mio padre è una tragedia di convenevoli e recriminazioni: lui continua a non capire cosa sto facendo nella vita, vorrebbe che tornassi a casa con loro, che entrassi nell’azienda di famiglia… insomma le solite cose. Solo che per dirle, stasera ci ha messo mezzora buona e mi ha fatto fare tardi. Mi sono persa l’inizio del giro, per ritrovarlo ho dovuto chiamare ottomila persone, così ho finito i soldi nel telefono, che vuol dire che chiamerò col 4888 per almeno due settimane, perché questo mese ho da pagare l’affitto, e non esiste che spenda venti euro anche per il telefonino.
Comunque, a parte il credito esaurito, tutte queste telefonate a qualcosa sono servite: ho risentito Matteo, che non beccavo da due mesi, e ci siamo accordati per prenderci una birra alle undici e mezza. Sono contenta, proprio non sapevo cosa fare questa sera.

«Allora, ti sei laureata?»
Matteo mi guarda oltre la birra, con i suoi occhi brillanti nella sera. L’anno scorso, quando abbiamo cominciato a uscire, mi piaceva parecchio.
«Sì, e tu?»
Poi però mi aveva annoiato: mi ricordo che, oltre a quell’aria così alternativa e interessante, non avevo trovato nessuna sostanza.
«Io anche. Adesso sto cercando…» Abbassa gli occhi. Mi sa che si vergogna; infatti cambia subito argomento, e mi chiede cosa faccio io.
«In realtà un bel po’ di cose: collaboro con un’associazione di rifugiati, tengo un corso di teatro per bambini, vado ancora alle riunioni del quartiere…»
Mi sorride, vagamente divertito: «Insomma, tutto volontariato no?».
Ma come volontariato? Io coltivo i miei interessi, e questo figlio di papà mi dice che faccio volontariato? Io mi pago mezzo affitto facendo la dog sitter.
Chissà perché, però, adesso non mi sembra che il figlio di papà si vergogni più molto. Mi guarda negli occhi, e mi costringe a dargli ragione: «Eh che ci vuoi fare, di questi tempi…»
Mentre la butto sulla lamentela qualunquista che tanto odio, mi ripeto che lo faccio solo per non umiliarlo. Già me le immagino, le sue giornate di niente, perse a lagnarsi del sistema, esattamente come sta facendo con me adesso. Già me lo immagino: tra massimo tre mesi, dopo tante belle parole, entrerà nello studio di commercialista di suo padre.
Matteo blatera e io penso che in fondo lo sapevamo fin dall’inizio.









martedì 5 giugno 2012

Film #2: Men in Black 3


Consiglio per l'utente, "ridicolo snob"


Cosa cerchiamo in un sequel?

I personaggi che conosciamo, con tutti i loro pregi e difetti; una storia originale che però segua schemi già noti; novità che non sconvolgano le regole di un gioco che in passato ha funzionato benissimo.
E cosa ci aspettiamo da un episodio della saga di Men in Black?
Il volto impassibile di Tommy Lee Jones (ormai veramente vecchissimo), le battute sagaci di Will Smith; alieni simpatici, alieni disgustosi, alieni strambi e alieni malvagi;  tanta azione, armi e gadget futuribili ma soprattutto tanta ironia.
In MIB 3 ci sono tutti questi elementi e per questo è sia un ottimo sequel che un gran bel episodio di MIB, anche se il primo resta inarrivabile.

La trama è, pur nella sua grande complessità, estremamente semplice: bisogna salvare la Terra dall’attacco di un alieno  senza un braccio che spara dardi dall’altro, e, per farlo, bisogna tornare indietro nel  tempo (e qui le cose si complicano) cercando di non perdere né la Terra né il vecchio K, con l’aiuto del giovane K (Josh Brolin) e di un simpatico e tenero alieno che prevede tutti i futuri possibili.

Il segreto di MIB però non sta né nella trama né negli effetti speciali (il 3D è inutile come quasi sempre) ma nell’ironia, nel non prendersi sul serio e nel voler divertire senza secondi fini.
Per cui, se questa sera volete andare al cinema, non andate a vedere quel film politicamente impegnato, o quello in cui muoiono tutti, o quello di cui non si capisce niente, o quello in uzbeco antico sottotitolato in polacco per non udenti, ma NON PRENDETEVI SUL SERIO e andate a vedere Men in Black: vi divertirete e apparirete più simpatici a quei buzzurri dei vostri amici che vogliono sempre vedere i film di De Sica.

lunedì 4 giugno 2012

Giorni e nuvole #3


Luca. La bicicletta

Mi chiamo Luca, ho 31 anni e sono un fallito.
Chiudo la porta dell’aula senza sbatterla. Vorrei prendermela col professore, ma non ci riesco. Certo, lui ci ha messo del suo, e il sorrisetto che ha fatto quando ha visto la mia età e la mia media sul libretto, il sorrisetto di chi pensa che faccio talmente pena che non merito neanche di essere compatito, non ha aiutato… Ma la verità è che il problema sono io: io che non ho ripassato a dovere, perché l’appello cadeva proprio la settimana dopo l’inventario, io che la sera ero stanco e pensavo ad Adele, che tanto con uno come me non ci starà mai. Io che, non diciamo cazzate, semplicemente non ci sono portato: non sono fatto per la Procedura Penale, né per lo studio della Giurisprudenza, né per lo studio in generale.
Io che non ho neanche tempo di lamentarmi, perché devo correre in negozio.

In negozio non entra nessuno da mezzora, e da mezzora mi sto piangendo addosso. Forse dovrei davvero lasciar perdere questa cagata dell’università. Ormai perfino gli assistenti che mi interrogano sono più giovani di me.
«Oggi mortorio, eh?»
Giovanna, la responsabile che conosce a memoria le debolezze di noi dipendenti, mi sorprende alle spalle e non ci mette né uno né due a capire che l’esame non è andato.
«Dai lasciamo qua il novellino, e andiamoci a bere un buon caffè dei nostri.»
Mi porta fuori senza dire una parola, sorridendo al sole incerto di questa tarda primavera; contenta solo lei sa per che cosa.
Ordina un succo alla pesca, si siede lasciandomi il posto all’ombra, e mi punta addosso i suoi occhi verdi inquisitori.
«Allora?»
Mi accendo una sigaretta. Allora cosa? Vuole proprio che le spiattelli davanti tutti i miei fallimenti? Non credo che questo mi farà sentire meglio. Ma siccome non mi va di discutere, comincio a raccontare svogliatamente; subito però mi interrompo: non mi sta ascoltando. Sguardo fisso, sorriso ebete; non capisco, non ha più quindici anni, e sono abbastanza sicuro che non si sia innamorata ieri di suo marito.
Prima che possa chiederle cosa succede, mi sorride: «Sono incinta.»
Mentre biascico le mie stentate congratulazioni, penso che Giovanna non dice mai niente per niente. Se si confida con me è perché ha in mente qualcosa.
E infatti, dopo avermi lasciato educatamente concludere le mie formalità, lancia il sasso che potrebbe cambiare la mia vita.
«Vorrei lasciare a te il negozio, durante la maternità.»
Cosa?
«Pensavo di fare il tuo nome alla sede centrale già domani. Certo, sarebbe per meno di un anno, ma credo che possa essere una bella occasione per farti notare nelle alte sfere. Senza contare i vantaggi economici…»
Ora penso che vuole stordirmi per convincermi ad accettare, penso che è una buona venditrice. Penso solo che se fa il mio nome è perché in qualche modo le conviene. Lei nel frattempo cerca di aumentarmi l’autostima, spiegandomi che sono il suo dipendente più esperto, che sono bravo in quello che faccio, che sono disponibile coi clienti, preciso, che si fida solo di me.
Alla fine trovo il modo di ribattere che però sarebbe un full time. È un impegno grosso, un full time.
Lei sospira, non saprei dire se per sincera comprensione o per pietà; ma quello che dice dopo in ogni caso mi sembra un consiglio onesto: «Forse sarebbe il caso che tu valutassi l’idea di lasciarla perdere, l’università.»
Ne parliamo ancora cinque minuti, le prometto di pensarci seriamente e di darle una risposta domani.
Torniamo a lavorare, e ovviamente il negozio a questo punto è pienissimo, perché è sempre così: quando vorresti distrarti, non hai niente da fare, ma quando invece vorresti decidere in santa pace della tua vita, frotte di coglioni vogliono consigli su degli inutili giochi da tavolo.
Alle sette e mezza finalmente sono fuori.

Salgo sulla bici e filo a casa.
Ma poi, sotto il portone, tiro dritto: proprio non me la sento di salire. Cosa dirà mia madre, cosa diranno gli amici, cosa dirà Adele? Sono pronto a diventare un lavoratore non laureato? In fondo perché no, cos’è che mi trattiene? È solo la paura di deludere le loro aspettative, oppure non ho le palle di prendere una decisione definitiva? Certo, un pezzo di carta al giorno d’oggi fa sempre comodo… Però, guardiamoci in faccia, io non sarò mai un avvocato.

La Darsena scorre piano alla mia destra, riflette un tramonto tempestoso di nuvole rosa e nere. Sarà quasi ora di cena; è ora di tornare, e devo pedalare in fretta se voglio arrivare in tempo. Pedalare in fretta. Sorrido, e penso che forse quest’ultimo pensiero è una metafora della mia condizione; in fondo, ho sempre saputo di essere una persona pratica, più che uno studioso. Uno che pedala. Anche quando da piccolo i miei mi dicevano; «Hai voluto la bicicletta?» eccetera, a me l’idea di pedalare non sembrava affatto male. Io sono uno che pedala.
All'improvviso, so che cosa dirò a Giovanna domani. Giro la bici e me ne torno a casa: stasera non esco, da domani devo lavorare tutto il giorno.