sabato 29 dicembre 2012

Recensione #30: La briscola in cinque


Il libro giusto al momento giusto

A volte capita di incontrare il libro giusto al momento giusto.
Non è questione di capolavori, e neanche di fiuto, ma semplicemente di banali coincidenze: quando inizi a leggerlo, capisci che è esattamente quello di cui avevi voglia. E te lo divori in un pomeriggio, come quando eri piccola, a dispetto di tutte le cose che ti eri ripromessa di fare in questi giorni letargici e teoricamente proficui tra Natale e Capodanno.
La briscola in cinque è stato esattamente questo: il libro giusto al momento giusto, capitato come sempre tra le mie mani un po’ per caso.
Come dicevo, non ho intenzione di sostenere che sia un capolavoro: troppi piccoli luoghi comuni da giallo all’italiana lo rendono più rassicurante che travolgente. Però posso affermare senza vergogna che questo libretto ha allietato la mia immaginazione per un paio di pomeriggi.

In una immaginaria quanto tipica località marittima del livornese, un giovane matematico gestisce un bar frequentato da frotte di giovani alla moda, ma soprattutto da una quadriglia di pettegoli vecchietti. Nulla può scuotere la routine estiva di questo luogo, nemmeno il ritrovamento del cadavere di una diciannovenne in un cassonetto: tutto continua a scorrere come prima, semplicemente adesso la gente ha qualcosa di cui parlare. La classica incompetenza della Polizia e il ruolo nevralgico dei bar nel tessuto sociale italiano eleggono automaticamente il brillante ristoratore a investigatore d’eccezione, così, come spesso accade, le indagini si alternano a focacce e cappuccini, e gli snodi della trama sono sostenuti dal pettegolezzo di paese. Massimo (il barista) è, prevedibilmente, un burbero sensibile ferito da una donna. Insomma, una vera infilata di luoghi comuni; che però, occorre ripeterlo, è in grado di intrattenere piacevolmente il lettore.

Innanzitutto, perché il mistero non si esaurisce nel classico motivo alla Don Matteo in cui il primo indiziato invariabilmente viene arrestato prima del tempo e in extremis scagionato dall’eroe. In secondo luogo perché l’affresco italiano che ne emerge, in cui vecchietti in ciabatte commentano bofonchiando i traffici di droga in discoteca, è davvero godibile. E infine perché Malvaldi sa costruire una storia e sa scriverla. Giusta dose di ironia, piacevoli riferimenti colti; qualche sbavatura nel linguaggio giovanile (non è credibile che un diciottenne ubriaco senta il bisogno di “urinare”), ma complessivamente niente di grave. Unica forzatura, a mio parere, l’analogia del mistero con il gioco di carte… Ma bisognava pur trovare una nota per distinguere la serie dei romanzi sui vecchietti dalle altre. Insomma, debolezze trascurabili.
Sicuramente non alta letteratura, ma -perché no?- il libro giusto tra Natale e Capodanno.

mercoledì 26 dicembre 2012

Recensione #29: Portugal


Portogallo dell'anima

Come promesso ai miei fedeli lettori, e soprattutto a me stessa, approfitto della pausa natalizia per mettermi in pari con le recensioni.
Comincerò dalla fine, che mi viene più facile. Poche ore fa ho finito di leggere Portugal, il grafic novel autobiografico vincitore del premio FNAC 2012 al festival di Angoulême, che ha consacrato il talento di Cyril Pedrosa.

La premessa doverosa è che io non sono una da fumetti. Non tanto per pregiudizi radical chic, quanto piuttosto per un difetto strutturale di lettura: il mio occhio impaziente si rifiuta di soffermarsi sulle illustrazioni. Divora le didascalie, cercando di farsele bastare, pur di arrivare il prima possibile a sapere come va a finire. Questo chiaramente non mi permette di apprezzare la qualità delle immagini.
Perciò, nonostante tra i miei amici figurino alcuni autorevoli intenditori, difficilmente sul mio comodino si posano opere illustrate. Stavolta, però, è diverso.

Qualche mese fa, in occasione di Bookcity (l’ennesima deludente manifestazione milanese dedicata all’editoria), sono andata con Tita e Mari (una degli autorevoli intenditori di fumetti, tiene un blog che si chiama Di fumo e d'inchiostro) a sentire una presentazione di Bao Publishing. Nel corso del piacevole e meritatamente autocelebrativo sproloquio dei fondatori, Caterina Marietti ha raccontato la storia del suo amore viscerale per un’opera impegnativa e avvincente, su cui aveva scommesso parecchio: Portugal. L’aria sognante del protagonista in copertina mi ha conquistata in tempo zero.
Così, quando ieri, la sempre cara e attenta Tita mi ha regalato questo librone, sono stata contentissima: appena arrivata a casa, dimentica dell’indigestione natalizia, mi sono messa a letto e ho cominciato a leggere.
Oggi è Santo Stefano. Il librone è chiuso di fianco a me sul letto, e io sono gonfia di nostalgia, come se fossi di ritorno da un viaggio romantico per mezza Europa.


In effetti, Portugal potrebbe essere definito un romanzo di formazione, e quindi, in un certo senso, un viaggio: Simon, il protagonista/narratore, è uno scrittore fallito, inetto e insopportabile, in piena crisi esistenziale e creativa, che comincia a interrogarsi sulla storia della sua famiglia, sottilmente in bilico tra Francia e Portogallo, e soprattutto tra legami confusi, sepolti tra ricordi, silenzi e incomprensioni. Detta così, potrebbe sembrare la traccia di un qualsiasi noioso romanzo ottocentesco, ma la verità è che Portugal  è molto di più. In questo caso, infatti, la scelta del mezzo è davvero vincente. Non solo grazie alle illustrazioni splendide, ma soprattutto perché la modalità di racconto è allo stesso tempo delicata ed efficace. Il narratore non perde tempo a spiegare o collegare i fatti: semplicemente, racconta, procedendo a salti, e confidando nelle immagini. In compenso si serve di alcuni strumenti (il colore dei balloon cambia a seconda della provenienza linguistica dei personaggi, il fondale delle vignette varia con l’ora del giorno e con il tipo di narrazione, per cui, per esempio, le parti più oniriche sono su fondo azzurro) che aiutano in lettore a orientarsi. L’effetto è davvero suggestivo: si ha l’impressione non di una narrazione organica, ma di un vero e proprio viaggio nella mente del protagonista.


Prevedibilmente, ciò che Simon scopre, tra le pieghe della sua memoria e i resoconti smangiucchiati di suo padre e dei suoi zii, riuniti dopo tanti anni per il matrimonio di una cugina, è il Portogallo.
Un Portogallo che sembra davvero un luogo dell’anima, colorato e decadente come un ricordo. Un luogo in cui rimanere, e da cui, forse, ricominciare.
Dopo aver magistralmente ripercorso a ritroso la storia di tre generazioni, il romanzo si conclude. Al lettore rimangono in eredità le impressioni sfumate della narrazione e, soprattutto, la voglia di partire.

venerdì 21 dicembre 2012

Film #7: Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato


Nel capitolo della trilogia basata sull’omonimo romanzo di J.R.R. Tolkien lo stregone Gandalf propone  lo hobbit Bilbo Baggins come quattordicesimo membro di una spedizione di nani. L’impresa ha come obiettivo la  riconquista dell’antico regno nanico di Erebor nei meandri della montagna solitaria, dove ora regna il temibile drago Smaug.
Prima di giungere presso la montagna Bilbo e i suoi compagni dovranno però affrontare una serie di avventure con troll, orchi, goblin, lupi e l’inquietante Gollum.

In Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato c’è tutto quello che avviene nel libro da cui è tratto, e anche di più! Spesso, infatti, il ritmo della narrazione è interrotto da lunghe sequenze in cui vengono spiegati antefatti e cause degli eventi. Queste scene risultano però poco comprensibili a coloro che non sono tecnici del mondo di Tolkien e per nulla chiarificatrici.
Un primo difetto di questo film è quindi quello di essere destinato ad un pubblico “tecnico”. A supporto della mia tesi riporto un commento sentito sul tram da una ragazza che parlava con un’amica: “Cioè, è un film troppo da nerd”. Infatti il film risulta troppo legato alla mitologia tolkeniana in generale e alla precedente trilogia de Il signore degli anelli in particolare.

Un viaggio inaspettato manca inoltre del ritmo incalzante di cui necessita questo genere di film. Questo difetto, secondo me, è dovuto all’eccessiva fedeltà al testo da cui è tratto: tutto ciò che è narrato da Tolkien è riportato pari pari nel film. Questo fa si che le scene che dovrebbero essere leggere risultano noiose e lente, mentre quelle d’azione abbiano talvolta un che di infantile e goffo.
Penso si sia capito che non condivido la scelta di realizzare tre lungometraggi per rappresentare un unico libro. Trasportare dalla carta allo schermo non può voler dire riportare in immagini tutto ciò che è scritto nel libro, molto va tolto, qualcosa aggiunto, poco cambiato, l’importante è che si rispettino le intenzioni dello scrittore. 
Ed è forse la fedeltà ideologica il più grande merito di questo film, che, soprattutto nei suoi protagonisti (Bilbo, Gandalf e Thorin), interpreta perfettamente lo spirito de Lo Hobbit, che può essere definito come una favola epica.
Un plauso particolare va a Martin Freeman che interpreta magnificamente un Bilbo Baggins pigro ed allo stesso tempo coraggioso, proprio come è descritto da Tolkien.

Ho la speranza e la convinzione che i successivi episodi di questa trilogia, ed in particolar modo il terzo, saranno molto più convincenti in termini di ritmo e di fruibilità, perché la seconda parte del libro è sicuramente più cinematografica.

Una piccola nota finale per citare il bellissimo brano della colonna sonora: Song of the lonely mountain.

martedì 4 dicembre 2012

Film #6: Argo

1979. Sei funzionari dell’ambasciata americana a Teheran fuggono durante l’attacco all’edificio portato da una folla di rivoltosi. Gli evasi riescono a rifugiarsi nella casa dell’ambasciatore canadese, dalla quale, però,non possono uscire per non essere riconosciuti e quindi arrestati come spie dalla polizia dell’Ayatollah Khomeini.
L’esfiltratore (curioso termine per indicare chi cerca di liberare gli ostaggi) della CIA Tony Mendez (Ben Affleck) volerà a Teheran per aiutarli a fuggire. Per eludere i pressanti controlli della polizia iraniana i sei fuggitivi e l’agente segreto si fingeranno una troupe cinematografica intenzionata a girare un film di fantascienza ambientato nei paesaggi mediorientali di Teheran.
La vicenda, che ha dell’incredibile, è invece basata su una storia vera.

Questo è "Argo", un film che si esaurisce completamente nella sua trama. I personaggi sono infatti appena accennati e lo stesso protagonista non manifesta quasi mai le sue emozioni. Anche le vicende storiche sono presentate come verità assolute, e così pure, il contesto sociale iraniano, che è dipinto in bianchi e neri, senza sfumature.
Una persona che conosce bene quelle terre mi ha detto una volta: “In Iran niente è come sembra”. Questo aspetto non è minimamente evidenziato in Argo, dove invece tutto è come sembra.

Tutto ciò, però, non è, a mio avviso, un difetto, ma anzi è funzionale all'obiettivo del regista (Ben Affleck stesso), che non vuole portare avanti un’indagine storica, né esplorare i sentimenti dei protagonisti, ma soltanto raccontare una storia vera e avvincente, nel modo più appassionante possibile. Devo dire che riesce perfettamente nel suo intento.
Il risultato è un puro concentrato di emozioni e, nella seconda parte in particolare, si rimane per lungo tempo con il fiato sospeso.

Tensione a non finire, un pizzico di ironia e critica sociale (gli Stati Uniti e il mondo del cinema non vengono dipinti in modo lusinghiero), un cucchiaio di originalità (gli agenti della CIA sono i buoni) e una durata perfetta (120 min.) è la ricetta di questo film squisito che divorerete con gli occhi.

Argo è veramente il film dell’anno, per ora. Un film che non vi farà riflettere, perché non ne avrete il tempo.







domenica 18 novembre 2012

Recensione #28: Follie di Brooklyn


Una storia da film

Le mie amiche amanti di New York (non che io non lo sia; semplicemente non ho ancora avuto la fortuna di andarci) mi hanno consigliato le Follie di Brooklyn quest’estate. A dire il vero, nessuna delle due mi ha detto che era un capolavoro, ma entrambe hanno pensato che l’avrei apprezzato. 
Io mi sono fidata, e un paio di settimane fa l'ho attaccato.

Devo dire che è un libro che si fa leggere.
Gli ingredienti per una bella storia non mancano: un pensionato scottato dalla vita ma pronto a ricredersi, suo nipote libraio ex tassista ex studioso un po’ depresso, il suo principale eccentrico; una libreria stupenda, una bambina originale, un fanatico religioso, un falsario, un luogo dell’anima, una maestra innamorata; un sacco di truffe e inganni, un po’ d’amore e legami familiari da salvare, un discreto numero di colpi di scena…
Potenzialmente, direi un bel libro. Invece, se ci penso, c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che non mi ha convinto.

La prima nota che mi lascia perplessa è il protagonista/narratore. Questa cosa del burbero pensionato dal cuore tenero mi fa venire in mente la retorica alla Clint Eastwood a cui sono decisamente allergica. Ma questo potrebbe essere un problema mio. Anche perché, come personaggio, Nathan è forse un po’ scontato ma sicuramente ben riuscito, e soprattutto utilissimo all’economia del racconto. Attraverso il filtro sottile e spassionato dei suoi occhi, infatti, le altre figure si stagliano dal formicolio operoso e gioviale di Brooklyn in modo originale e anche abbastanza appassionante. Insomma, direi che posso passare oltre le mie personali insofferenze per certe redenzioni letterarie, e accettare il narratore. E posso soprassedere anche su qualche sbavatura della traduzione (un po’ troppi calchi dall’inglese, per conto mio), perché tutto sommato sono cose che capitano.

Quello che invece proprio non mi va giù è la sensazione che ho avuto leggendo le ultime cento pagine: la sensazione di non arrivare in nessun posto. Paul Auster mi ha portato in giro per un bel pezzo per le strade di New York, con sapienza mi ha introdotto in un intricato quadro di famiglia, e poi… poi niente. Il libro finisce e basta. Non c’è un messaggio, ma nemmeno una frase che ti resta dentro; non c’è nessuna urgenza dietro questa storia, solo un ingranaggio abbastanza ben costruito. E ora della fine il lettore se ne accorge.
Arrivi in fondo, e pensi che non è stato male, ma che tutto sommato potevi leggere anche qualcos’altro. O, forse meglio, che questa storia stava molto meglio in un film che in un libro. Come film, direi che avrebbe funzionato: in un film, una bella storia e un’ambientazione efficace mi bastano. Da un libro invece, vorrei qualcosa di più.  

domenica 11 novembre 2012

Recensione #27: Branchie


Delirio nell’acquario

Quando, con gli amici del Club di Lettura, abbiamo scelto Branchie, eravamo pieni di belle speranze. Forse erano i buoni propositi di settembre, forse la scoperta che il progetto grafico era di  Riccardo Falcinelli, lo stesso di Almost Blue, che avevamo divorato prima dell’estate, non lo so. Nel mio caso, c’era sicuramente anche una discreta fiducia in Ammaniti: Io non ho paura, ai suoi tempi, mi era piaciuto parecchio…
Da allora molte cose sono cambiate: dopo l’entusiasmo e i buoni propositi, abbiamo conosciuto le fatiche di settembre, con i primi freddi abbiamo preso coscienza dei nostri limiti… E rapidamente siamo precipitati in novembre. Il libro è terminato, è tempo di bilanci. Per farla breve, ci abbiamo messo una vita a leggerlo, e questo sicuramente non ha aiutato ad apprezzare appieno l’opera. Opera che comunque ha una storia un po’ particolare: a quanto pare, (vedi prefazione) Ammaniti l’ha scritta nel 1993; invece di occuparsi della sua tesi: Rilascio di acetilcolinesterasi in neuroblastoma, ha partorito questa storia. Dopodiché, ha abbandonato l’idea della laurea, e si è dato alla scrittura. Che inizio folkloristico, no? Ovviamente, il romanzo non è stato pubblicato subito, se non da una piccolissima casa editrice. Ma l’autore gli era comunque molto affezionato, e, una volta affermatosi, ha deciso di proporlo (rivisto) ai suoi lettori, come un regalo. Tipo le foto di quando eravamo bambini, con cui un bel giorno decidiamo di ammorbare i nostri amici, in forza di un loro presunto interesse per ogni tenero aspetto del nostro passato… Direi che l’impressione leggendo Branchie è stata un po’ questa: la nostalgica condivisione dell’autore di un cimelio che forse avrebbe fatto meglio a tenersi per sé.

Marco Donati è un giovane e malmostoso malato terminale, che trascina i suoi ultimi giorni di vita tra feste discutibili e fidanzate isteriche, abitando nella penombra del suo negozio di acquari ormai chiuso. Un giorno riceve una misteriosa lettera, in cui una facoltosa signora lo invita a raggiungerla in India per costruirle il più grande acquario mai realizzato. Ovviamente lusingato dall’offerta, Marco abbandona la sua squallida esistenza e parte. Da qui in avanti, la trama precipita in un vortice di assurdità, che toccano la chirurgia estetica, il mondo animale, la povertà in India e molto altro, con vistose digressioni sulla cucina italiana. Il senso? A quanto pare, è trascurabile. La vicenda si conclude in modo totalmente surreale, senza spiegare nessuna delle stravaganze con cui il giovane Ammaniti ha dilettato il lettore per duecento pagine.

Personalmente, non ho niente contro il surreale: non penso che la letteratura debba per forza essere pienamente realistica. Però, diciamo, se è visionaria, almeno deve essere piacevole! Invece qui l’impressione è di essere trascinati in una cosa insensata e per giunta di cattivo gusto (scene di sesso estremo, pesci che divorano uomini dall’interno, gite nelle fogne...???). Non che manchino del tutto le note divertenti: alcuni episodi, e la conclusione stessa – anche se non risolve la storia – sono anche parecchio divertenti. Ma di per sé non bastano a sostenere l’opera.
In conclusione, direi che la sensazione è che quello che si è divertito di più con quest’opera sia l’autore: che ha ingannato la noia scrivendola, e buttandoci dentro a ruota libera le sue fantasie. Esercizio apprezzabile, per carità; ma forse non adatto ad essere condiviso con il grande e fiducioso pubblico. 


lunedì 5 novembre 2012

Film #5: Skyfall


Skyfall è il primo film di 007 che abbia mai visto. I primi sono troppo vecchi per i miei gusti (a parte poche eccezioni, non riesco proprio a vedere i film girati prima degli anni ’80), gli ultimi, invece, non li ho voluti guardare per una questione di simmetria.
Non so quindi perché ho deciso di fare un’eccezione per Skyfall. Forse perché ho letto delle recensioni positive, o perché attualmente al cinema non c’è nulla di meglio, oppure per ascoltare Skyfall, la canzone di Adele che accompagna i titoli di testa e che li rende incredibilmente piacevoli?


In questo capitolo della saga il cattivo di turno (un’irriconoscibile ma convincente Javier Bardem) riesce ad impossessarsi di un file top secret contenente la lista degli agenti sotto copertura della NATO. Toccherà all’immarcescibile James Bond (per la terza volta Daniel Craig) recuperare il documento per salvare i colleghi ma soprattutto l’onore del MI6 e dell’Inghilterra.
Il britannico agente segreto dovrà quindi dimostrare di essere sempre all’altezza della situazione nonostante l’età che avanza e i proiettili che ha in corpo, armato più che mai di una buona dose di ironia (che non guasta mai, soprattutto in un film che dura più di due ore).

Anche se non sono un esperto del settore mi sento di dire che Skyfall celebra perfettamente i cinquant’anni della saga. Sono infatti ripresi tutti gli aspetti peculiari del personaggio: l’Aston Martin, “il mio nome è Bond, James Bond”, la pistola, il cocktail, la Bond girl ecc. Non per questo, però, il film risulta datato o scontato, ma anzi è sicuramente avvincente.
Con Skyfall sembra che il regista (Sam Mendes) voglia ribadire il ruolo di 007 come archetipo dei film di spionaggio e, allo stesso tempo, innalzarlo a leader incontrastato di tutti gli agenti segreti del mondo del cinema. Vediamo come risponderà Jack Bauer nel film che dovrebbe uscire quest’estate, che certamente vedrò e probabilmente recensirò.

In definitiva il film è sicuramente appassionante anche se troppo lungo, soprattutto se si va al secondo spettacolo, ma purtroppo è uno di quei film che viene proiettato o troppo presto o troppo tardi.
Dopo aver visto Skyfall vedrei volentieri il prossimo 007 anche se non penso che mi metterò a vedere tutti gli episodi precedenti... Ma forse questa è una questione personale.




domenica 4 novembre 2012

Recensione # 26: Venere privata


Primo incontro con Duca

Anche il secondo appuntamento con Scerbanenco è stato un successo; prova ne sia il fatto che si è consumato nell’arco di un weekend.
Finalmente ho fatto la conoscenza del famoso Duca Lamberti; ne sentivo parlare dai tempi dell’università, ma non c’era mai stata occasione. Posso dire che è stato un piacere!

Venere privata è il primo romanzo del ciclo di Duca Lamberti ed è un vero successo. Da qui in avanti, Scerbabenco, noto principalmente come scrittore di narrativa romantico-rosa, si farà conoscere soprattutto come autore di polizieschi. Il protagonista, in particolare, avrà grosso seguito, e spingerà il suo creatore a dedicargli una vera e propria saga di episodi (che non mancherò di frequentare nei prossimi mesi). In effetti, limpido e tormentato com’è, Duca è un personaggio che fa parecchia simpatia. Radiato dall’albo dei medici e condannato a tre anni di carcere per aver somministrato l’eutanasia, è appena tornato in libertà, ed è in cerca di un lavoro che gli permetta di reinserirsi nel tessuto sociale. Ma questo reinserimento è in realtà impossibile: ormai, qualcosa si è spezzato dentro di lui, e lo spinge a forzare i limiti del sistema per riportare un po’ di ordine nel mondo corrotto che lo circonda. Nonostante tutto, ci sono ancora degli innocenti da proteggere, e Duca non può rimanere immobile di fronte alla sofferenza.

Viene quindi assunto da un facoltoso ingegnere perché aiuti il suo timido figliolo a liberarsi da un devastante alcolismo. Ben presto si scopre che questo disturbo è sintomo di una ferita ben più profonda, un senso di colpa apparentemente inestinguibile. A metà tra il medico e il poliziotto, Duca si fa coinvolgere dalla vicenda, fino a scoprire e sciogliere il losco segreto nascosto dietro il disagio del  paziente.

Una Milano calda e abbacinata, sporca e addormentata culla di criminali senza scrupoli. Un disperato paladino del bene, aiutato da una meravigliosa signorina Discorsi Generali, e da un gigante buono schiacciato dal senso di colpa. Ecco i principali ingredienti di Venere privata. Una storia appassionante, ma soprattutto ben raccontata. L’autore è abile e, come giustamente fa notare Doninelli nella prefazione dell’edizione Garzanti: «somministra la realtà dei fatti a piccole dosi, poco per volta.» Il narratore è spiccio, e tiene saldamente il punto di vista di Duca. Perfino le sue considerazioni generali sulla decadenza del sistema, che dopo I promessi sposi suonano sempre stantie e moralistiche, sono intonate, perché rispecchiano la mentalità del protagonista. Peccato solo per i diecimila flashback (già segnalati nella recensione a Non rimanere soli) che, alla lunga, appesantiscono la narrazione e danno l’impressione che, quanto a strumenti narrativi, l’autore manchi un po’ di creatività. A parte questo, però, Venere privata è un romanzo davvero  ben riuscito. Quando leggi l’ultima frase, stai già pensando a dove procurarti il prossimo. 

venerdì 2 novembre 2012

Recensione # 25: Il mio incontro con l'orso


Tentato proselitismo ambientalista

Prima di cominciare questa recensione, vorrei premettere una cosa: non ho niente contro gli ambientalisti. Anzi, nel mio piccolo, penso di essere attenta alla salvaguardia del pianeta: cerco di non sprecare l’acqua, faccio la raccolta differenziata… Anche gli animali, tendenzialmente mi piacciono. Certo, i gatti mi odiano, ma non penso che questo sia un problema mio: sono loro che ce l'hanno con me, non il contrario. E non penso sia colpa mia neanche se in tutta la mia infanzia ho potuto allevare al massimo delle lumache, e se attualmente in camera dei miei fratelli alloggia un pesce blu con disturbi di stomaco, che ha popolato i peggiori incubi di tutti i membri della famiglia… Ok, forse ho un rapporto un po’ strano con gli animali domestici, ma se non altro rispetto flora e fauna di qualsiasi tipo, non uccido nemmeno le zanzare, tanto non mi pungono. C’è stato addirittura un periodo della mia gioventù in cui pensavo di poter comunicare con le piante…!
Insomma, mi sembra chiaro che non ho nessun problema con la natura. Ma nonostante questo protrarre la descrizione dei sentimenti materni di una cerbiatta braccata da crudeli cacciatori per più di venti pagine mi sembra un po’ eccessivo.

Direi che, sommariamente, questa è la ragione per cui non ho apprezzato Il mio incontro con l’orso.
Ma andiamo con ordine: l’estate scorsa, mia cugina (la solita che mi consiglia i libri, ormai credo sia chiaro che è un personaggio tendenzialmente affidabile) mi parla di questo volumetto di racconti: dice che è molto carino, che descrive paesaggi americani stupendi… insomma, mi incuriosisce. Certo, mi avverte, è forse un pochino subdolo: in un primo momento, l’autore suscita la tua simpatia, e poi, un po’ per volta, ti impone il suo punto di vista estremo sulle questioni dello scempio dell’ambiente da parte dell’uomo.
Va be’, penso io, che sarà mai un po’ di ambientalismo, a fronte di cotanta simpatia? Mi faccio prestare il libricino.
A discolpa dell’opera, devo dire che la lettura addormentata sui mezzi, pensando al lavoro, probabilmente non ha aiutato ad apprezzare i dettagli. E che forse, in generale, la mia impazienza cronica non mi fa godere appieno delle descrizioni. Ma tant’è: nei primi racconti, invece di entusiasmarmi, mi sono annoiata. E poi, invece di indignarmi contro il cattivo uomo civilizzato, insensibile colonizzatore dell'ambiente, mi sono sentita fastidiosamente travolta dai luoghi comuni. Temo quindi che Charles Dudley Warner, almeno con me, abbia fallito la sua opera di sensibilizzazione.

Rimangono sicuramente degli aspetti positivi: riconosco all’opera una sorprendente attualità (è stata scritta nel 1878, ma potrebbe appartenere tranquillamente al post Into the wild) e soprattutto mi ha trasmesso una discreta voglia di visitare la zona degli Adirondack  (area montuosa nello stato di New York, in cui sono ambientati i racconti)… Sempre che in questi cento e passa anni il cattivo uomo bianco sia riuscito a non devastarla del tutto J

lunedì 15 ottobre 2012

Incursioni musicali:episodio #11



Di me si può dire tutto, ma non che sono una persona monotona: riesco a passare dai caldi suoni di un complesso Jazz affacciato allo svincolo per la tangenziale ovest di Milano, al fragore dell’evento musicale dell’anno. Tranquilli, non sono andata a Sanremo, nemmeno in villeggiatura. Ero con ben 150.000 persone nel centro dell’Emilia lacerata dal sisma. Ero a Campovolo, qualche sabato fa.

Vi risparmio il racconto, assolutamente umoristico, del travagliato ritorno a casa che ha richiesto a me e alle mie compagne di sopportare contemporaneamente le dodici fatiche di Ercole e le dieci piaghe di Egitto. Va be’, forse è ho po’ esagerato, però le cavallette c’erano!

Mi concentro sul concerto, come è giusto che sia. 

“Italia loves Emilia” è stato un evento non paragonabile ad altro nella storia del rock italiano. Il successo è arrivato ben prima che il primo spettatore varcasse i cancelli di Campovolo. È arrivato quando si è saputo quanto denaro si è raccolto per la ricostruzione di  alcune scuole emiliane distrutte dal  sisma di questa primavera. Del resto, non si sarebbe potuto confezionare un cast del genere se non per una causa come questa. 

Dal punto di vista musicale, è stato un ottimo concerto. I due palchi, l’assenza del presentatore che avrebbe rallentato il ritmo e aggiunto altra retorica a quella inevitabilmente (e come negargliela) proposta dai cantanti, i duetti già rodati (vedi “Tu mi porti su” di Giorgia feat. Jovanotti o “Gli ostacoli del cuore” di Elisa feat. Ligabue) o del tutto nuovi, hanno reso lo spettacolo brillante e decisamente all’altezza delle previsioni.

Come spesso mi accade ultimamente, mi ritrovo a commuovermi per canzoni in modo del tutto inaspettato. Ma vi spiegherò meglio nella mia personale classifica “emotiva” della serata.

  1. “Madre dolcissima”, Zucchero con Elisa, Fiorella Mannoia e Jeff Beck: non la ascoltavo dal 1989, anno di uscita di “Oro, incenso e mirra”. Quell’album, l’unico di Zucchero posseduto dalla mia famiglia, era uno di quelli che girava nei lunghi viaggi estivi per raggiungere la Calabria. E di quell’album, in cui c’era anche un capolavoro come “Diamante”,  “Madre dolcissima” è sempre stata la mia preferita. L’assolo di chitarra di Jeff Beck e i cori di Elisa e la Mannoia hanno reso il brano ancora più intenso.  
  2. “Via”, Claudio Baglioni: lo confesso, da piccola (precisiamo fino agli 11 anni, non di più) amavo, anzi AMAVO Baglioni. Il mio primo concerto al Forum è stato il suo. Palco al centro, Baglioni e pianoforte. Beh, ammetto di aver rinnegato a lungo questa mia passione giovanile ma, a voi mi sento proprio di dirlo: a 34 anni mi sono ritrovata a cantare tutta la canzone dalla prima all’ultima parola. Certo che la mia memoria regge ancora…. 
  3. “Anna e Marco”, Fiorella Mannoia e Giuliano Sangiorgi: hanno così tributato all’emiliano per eccellenza Lucio Dalla. Le loro voci sono incredibili, e, seppur con qualche pecca, sono riusciti a rendere notevole la loro versione.
  4. “Tex”, Litifiba e Ligabue: ecco come mi sono avvicinata al rock, con i Litfiba di “Gioconda”, “Maudit” e “Tex” e  il vecchio Ligabue di “Anime in Plexiglass”, “Marlond Brando è sempre lui”, “Ti chiamerò Sam (se suoni bene)”. Rivederli insieme, in una versione, se non impeccabile, di sicuro travolgente di “Tex” mi ha fatto venire una gran voglia di rispolverare vecchie cassette e di cantare a squarciagola “Se la speranza è l'ultima a morire: chi visse sperando morì, non si può dire” (cit. da “Gioconda”).
  5. Jovanotti ed Elisa, per la loro generosità nel lanciarsi in duetti anche improbabili (Jovanotti e Renato Zero in versione reggae?!) con la maggior parte dei loro compagni di palco.   
    Quando il piacere non è essere lo spettacolo ma è solo farne parte. 

     Soundtrack: "Madre dolcissima", Oro incenso e mirra, 1989

sabato 13 ottobre 2012

Recensione #24: I miracoli di Val Morel

Un "testamento umano, artistico e spirituale"

Disegnare e scrivere per me in fondo sono la stessa cosa.
(Dino Buzzati)

Anche se avrei moltissimo da dire, stavolta vorrei cercare di essere breve.
In effetti, credo che queste immagini da sole bastino a convincere che I miracoli di Val Morel merita di essere almeno sfogliato.
Tuttavia il mio dovere di (re)censore mi impone di dire almeno due parole.




I miracoli di Val Morel è l’ultima opera di Dino Buzzati, uscita nel novembre del 1971, cioè tre mesi prima della morte dell’autore.
La genesi del libretto è abbastanza interessante, e peraltro dettagliatamente presentata da Lorenzo VIganò nella postfazione. A quanto pare, prima di essere un libro, questi miracoli erano una mostra. Cioè, una serie di quadri, realizzati da Buzzati per la galleria veneziana del collezionista Renato Cardazzo. L’esposizione fu un successo, e lo scrittore si convinse a trasformare il catalogo in un libro: riorganizzò il materiale, ad ogni illustrazione unì una brevissima spiegazione, e soprattutto creò l’espediente letterario del quadernetto ritrovato nella biblioteca del padre, contenente una quarantina di incredibili ex voto che illustrano altrettanti miracoli di Santa Rita. La prefazione di Montanelli, infine, diede il giusto lustro all’insieme.

Il risultato è un meraviglioso racconto “risolto più con le immagini che con le parole”. Da queste pagine, Buzzati affronta, in modo solo apparentemente innocuo, i suoi temi più cari e più scottanti: dall’attesa alla morte, dall’angoscia alla paura. Con il suo tono da cronista impassibile, l'autore descrive i mostri, le calamità e i fenomeni che ha disegnato. Al lettore non resta che riconoscere e apprezzare, dietro la limpidezza del tratto e i colori sgargianti, le immagini e i temi che ha imparato ad amare in tanti racconti.

giovedì 4 ottobre 2012

Evento #5 Un'oretta al Museo di Storia Naturale


Oggi, dopo troppo tempo, sono finalmente riuscito a tornare al Museo di Storia Naturale (in corso Venezia, appena dentro ai giardini pubblici).

L’occasione per questa visita mi è stata fornita dalla nuova mostra intitolata: “Le piccole conchiglie che crearono il tempo” (dal 28 settembre al 21 ottobre). Purtroppo l’esposizione si è rivelata una mezza delusione: la mostra, infatti, si sviluppa in un’unica sala in cui i cartelli esplicativi sono più numerosi delle conchiglie.

L'esposizione presenta i luoghi e i fossili studiati dal famoso geologo Charles Lyell (1797-1875), che gli permisero di formulare alcune delle sue teorie più importanti, come quella sull'età della Terra, molto più antica di quanto non si fosse ipotizzato fino ad allora, sulla base di interpretazioni  letterali della Bibbia.

Visitare la mostra mi ha richiesto appena 5 minuti, molto piacevoli, ma veramente troppo pochi per valere il prezzo del biglietto, peraltro assolutamente abbordabile: 3€ (1,50 € ridotto).Perché allora non visitare l’intero museo? Lo conosco a memoria ma è sempre piacevole perdersi nell'atmosfera di domestico mistero che solo le particolarità della Natura, racchiuse in un ambiente così solenne e originale, possono suscitare. E così eccomi a girare tra  minerali dai colori sgargianti e dall'incredibile perfezione geometrica; a viaggiare nel tempo osservando i fossili di tutti gli animali che hanno abitato il pianeta. E tutto questo senza uscire dal centro di Milano!

Per cui vi consiglio vivamente di visitare il museo. In un’oretta lo vedete tutto. Ma andateci adesso che, oltre alle piccole conchiglie e alle varie permanenti,  potete vedere ancora la mostra dei crani degli animali del mondo, dove sono esposti tra l’altro alcuni reperti veramente curiosi come la zanna del narvalo o il teschio di un cane simile al chihuhua.


Confesso che mi piacerebbe tantissimo lavorare nel Museo di Storia Naturale. Se potessi cercherei di rendere il percorso un po’ più interattivo. Si potrebbe, per esempio, dare la possibilità ai visitatori di osservare delle sezioni sottili (fette di roccia così sottili da essere trasparenti) al microscopio. Un semplice pezzo di marmo rivelerebbe uno spettacolo sorprendente!