domenica 18 maggio 2014

Recensione #53: La gabbia d'oro

La gabbia delle ideologie


"Se non potete eliminare l'ingiustizia, almeno raccontatela a tutti."
Alì Shariati

Ho finito di leggere La gabbia d’oro da una settimana e ancora non mi sono decisa a scriverne una riga. Faccio fatica a mettere in ordine in pensieri, a dare un nome alle cose. Quello che ho davanti è senz’altro un romanzo, ma un romanzo particolare. Più che un romanzo a tesi, più che un romanzo storico, mi viene quasi da definirlo una parabola. L’impressione fortissima che si ricava dalla lettura, infatti, è che l’autrice (Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003), tutto volesse meno che fare delle speculazioni letterarie. Piuttosto, che abbia scelto il romanzo perché il suo messaggio arrivasse al maggior numero di persone possibile.

La gabbia d’oro è la storia di una famiglia iraniana squassata dalla rivoluzione: tre fratelli, unitissimi nell’infanzia, vengono separati e distrutti dalle ideologie, vere e proprie gabbie, in cui si trincerano. Il maggiore sceglie infatti la cieca lealtà allo Shah;  il mediano prende la via del Tudeh, il partito comunista clandestino; mentre l'ultimo aderisce al fanatismo della rivoluzione khomeinista. A cercare invano di tenerli uniti è solo la sorella Parì, figura solare e moderna, carissima amica dell’autrice. Una storia vera, quindi. Vista e vissuta vicinissimo dalla Ebadi, che infatti, pur mantenendo una voce molto limpida, trasmette la propria urgenza di raccontare, di dar voce all’ingiustizia e all'assurdità che negli ultimi anni hanno sopraffatto migliaia di famiglie iraniane.

In questo caso, quindi, il romanzo è innanzitutto sociale: grido di allarme, denuncia, gesto di compassione. Questa finalità è evidente anche nella forma: asciutta, con ampie e chiare spiegazioni (ottime per gli ignoranti come me) degli avvenimenti. La voce dell’autrice scandisce gli eventi senza fronzoli né sentimentalismi; eppure suona profondamente innamorata dell’Iran, della sua cultura, dei suoi profumi e dei suoi colori. La denuncia della Ebadi diventa così grido di dolore per una terra sconvolta, per una cultura dilaniata. In questo senso, dunque, la vicenda di Parì e dei suoi fratelli è paradigmatica: uno strumento - è l'autrice stessa a dichiararlo nell'ultimo capitolo - per raccontare al mondo l’assurda situazione politico-culturale in cui versa l’Iran.

Non quindi un romanzo come sono abituata a pensarlo, in cui soffermarsi su profondità di personaggi e scelte stilistiche, ma la testimonianza, violenta e appassionata, di un pezzo di storia iraniana e non solo. Perché il dramma dei morti insepolti, con cui l'opera si apre e si chiude, non è anche quello dell’Antigone di Sofocle?

mercoledì 7 maggio 2014

Film #16: Grand Budapest Hotel

Il film racconta la storia di Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), concierge del Grand Budapest Hotel, e del suo discepolo, il giovane garzone Zero (Tony Revolori).
La loro sfavillante routine lavorativa al Grand Budapest è interrotta dalla morte di Madame D., una vecchia e ricca cliente dell’albergo, nonché amante di M. Gustave. Al quale, tra l’ira e lo stupore dei familiari, lascia in eredità un quadro di inestimabile valore.  Questo lascito sarà la scintilla di una serie di avventure che sconvolgeranno la vita di M.Gustave e dell’onnipresente Zero.

Ho l’impressione che Wes Anderson, il regista, abbia voluto realizzare un omaggio al cinema comico in bianco e nero. Infatti le situazioni che si vengono a creare, come anche il modo di muoversi dei personaggi, sempre di corsa, mi ricordano molto i film di Chaplin. Senza contare che molte scene potrebbero essere anche mute.
Nonostante ciò la bellezza dei dialoghi è uno dei punti forti del film. Il linguaggio sempre elegante con cui si esprimono sia i personaggi che la voce narrante contrasta perfettamente con il ritmo frenetico della vicenda e fa risaltare maggiormente l’ambientazione onirica e caleidoscopica che accompagna lo spettatore per tutto il corso del film.
Inoltre il complesso gioco di narratori fa si che in ogni momento lo spettatore sia accompagnato da una voce narrante calda e forbita, che non attenua, anzi amplifica il senso di fantastico generato dalla scenografia dettagliatissima e molto colorata.


Azione frenetica, dialoghi eleganti, complesso meccanismo narrativo e scenografia fantastica rendono il film una commedia brillante che travolge lo spettatore con il suo ritmo forsennato e il suo spirito arguto.

domenica 4 maggio 2014

Recensione #52: Acciaio

Sensazioni di Acciaio

Ci sono libri che si lasciano leggere. No, di più, riproviamo. Ci sono libri che sono fatti per essere divorati. Le parole, trangugiate troppo in fretta, si incastrano tra le tue. Il ritmo ti si insinua nelle frasi, ti fa sentire coinvolta, catturata. Quando li finisci, ti fanno venire voglia di parlarne, di confrontarti, di scriverne. Per riordinare i pensieri, per capire se hai capito. Se sotto la superficie incrinata delle emozioni hanno qualcosa di profondo da dire. Ci sono libri che creano sensazioni precise, che alcuni scambiano per valore letterario e altri per illusioni da due soldi. Acciaio è uno di questi.

Ho ceduto alla tentazione di Silvia Avallone con qualche anno di ritardo, dopo averla sbirciata con curiosità dalle recensioni entusiaste sui settimanali, e dalle sue colonne – peraltro molto ben scritte – sul Corriere della Sera. Dopo tanto successo e tanto clamore, oggi che la Lucchini è su tutti i giornali, e le pagine del suo fortunato esordio guadagnano attualità e potenza insperate, mi sembra di avere una giustificazione adeguata per affrontarla direttamente.

Acciaio è la storia di Anna e Francesca, due adolescenti bellissime costrette a crescere nel mondo maschilista e crudele delle case popolari di Piombino, con l’altoforno Afo4, di cui in questi giorni tanto si parla, a scandire le giornate e inquinare i polmoni, e l’isola d’Elba come miraggio inarrivabile sullo sfondo. È la storia di come il loro piccolo universo si incrini all’impatto con la vita adulta, con un mondo spietato in cui puoi farti largo solo se sgomiti e calpesti i tuoi simili… o forse no. Forse non sono tutti davvero così cattivi? Forse una piccola speranza è possibile? L’autrice, che fino all’ultimo capitolo vuol fare la dura, accenendosi a tratti morbosamente contro lo squallore, le bassezze e la grettezza di questa periferia trascurata e invisibile, all’ultimo sembra avere un ripensamento: come se si ricordasse di star parlando di due adolescenti, prova a congedarle con un timido lieto fine, che però al lettore – o forse solo a me – suona come un contentino.
La stessa incertezza si riscontra anche a livello di stile: se sei nella testa di un quindicenne eccitato, che guarda la ragazza che gli piace un attimo prima di baciarla, davvero puoi dire “si era truccata un poco, oggi”? o “la gonna le si era un poco alzata”? Non so, a me sa di finto, di poco convinto. E mi viene da chiedermi se non sarebbe invece stato meglio aprire un po’ al dialetto… non credo che questi giovani parlino un italiano con tutte le consonanti e i congiuntivi al loro posto. Ma forse queste sono scelte editoriali, non divaghiamo.

Quello che conta è che in questo libro si sente una storia forte, una storia viva, se vogliamo usare un aggettivo caro alla Avallone, che non è la vicenda delle due amichette del cuore che litigano e poi magari fanno pace, ma quella drammatica dell’Italia sul baratro, alla vigilia del tracollo economico-culturale. Non mi sembra che all’autrice manchi il coraggio di raccontarla, ma forse la determinazione di andare fino in fondo, senza indugiare in banali quadretti da telefilm. Qualcuno potrebbe rispondere che è un problema di età, che a venticinque anni non si può essere già così cinici… ma a me le questioni anagrafiche sembrano sempre scuse.

Se leggerò Marina Bellezza? Non lo so, Amazon me ne ha proposto un capitolo attaccandolo direttamente all’e-book di Acciaio. Devo dire che l’inizio non mi ha entusiasmato, ma non si sa mai. Magari tra un po’ diventa attuale anche quello e allora chi può dirlo.