lunedì 20 giugno 2016

La figlia sbagliata: Recensione #74

La passione salvifica della Figlia sbagliata


Piccola delusione da ignorante sul Premio Strega 2016: La figlia sbagliata di Raffaella Romagnolo non è tra i cinque finalisti. Peccato, perché facevo il tifo per lei. Ma in fondo poco importa la cinquina; quello che conta è sapere che in circolazione c’è un romanzo su cui vale la pena di impegnarsi a scrivere due parole. Un romanzo che – come già La ferocia, per restare in tema di Strega – consiglierei a tutti. 

Al centro dell’opera, l’ennesima famiglia disfunzionale. Pietro, camionista, padre e marito assente; Ines, donna forte e ostinata, un capitale di energie quasi infinito riversato sui figli: Vittorio, il primogenito prediletto, e infine Riccarda: la figlia “sbagliata” del titolo, sbagliata fino nel nome.
Il romanzo si apre con la descrizione scientifica, piatta, della morte di Pietro: il cuore smette di battere e lui rimane lì, immobile, lo sguardo congelato sulle spalle della moglie, rabbiosamente intenta a lavare i piatti. 
Non è che Ines non si accorga di cosa stia succedendo; è che decide di ignorare la questione. E non per odio o per vendetta, come si crederebbe all’inizio; ma per una serie di meccanismi mentali che ormai l’hanno completamente paralizzata.

La figlia sbagliata si costruisce da qui. Dai pensieri ripetitivi, ossessivi, frustrati e distorti di Ines, che pian piano – alternandosi talvolta ai punti di vista degli altri protagonisti – ripercorrono i drammi segreti, individuali e comuni, di questa famiglia. Famiglia come incastro, dunque; groviglio di sofferenze e frustrazioni che definisce e modella quattro personalità dolorosamente inconciliabili. 
Sotto questo profilo, (ora dirò un’enormità) La figlia sbagliata mi ha ricordato un mostro sacro come Le correzioni. Proprio come il capolavoro di Franzen, infatti, l’opera della Romagnolo sa evidenziare la potenza distruttiva e ineludibile dei legami familiari. Le relazioni sono presentate come un male inevitabile, il male che definisce – in senso propriamente tragico – il destino dei personaggi. 


Ma c’è di più (per fortuna). La figlia sbagliata parla anche di talento, di passione, di vocazione. Della forza che ci vuole per inseguirli, per costruirci intorno una vita. Di come, alla lunga, questa sia l’unica possibilità per non soccombere. 
Non a caso, l’unico personaggio del romanzo che riesce a salvarsi (dove con salvezza potremmo intendere sia sopravvivenza che almeno parziale realizzazione di sé) è Riccarda. La “figlia sbagliata” è infatti la sola che riesce a spezzare le catene dei legami familiari, perché ha la forza di inseguire un obiettivo più alto, un sogno nato, cresciuto e faticosamente realizzato al di fuori delle anguste mura domestiche. Grazie alla passione, Riccarda riesce a trasformare il temperamento forgiato dalla famiglia (la sensazione di essere perennemente fuori luogo, “la capacità di scomparire, affinata in anni di quotidiano lavoro di opposizione e fuga, quel continuo guardarsi da fuori, e chiamarsi fuori dalle situazioni per non sentirsi esposta, la pelle scorticata dalle aspettative altrui”) in risorsa, condizione auspicabile per diventare attrice. In questo senso, la figlia sbagliata (che non per niente nella prima audizione della sua vita sceglie di interpretare l’Elettra di Euripide, l’eroina tragica che, con la complicità del fratello Oreste, uccide la madre) è – nonostante il dolore – artefice del proprio destino. 

La dimensione tragica non risolve però pienamente il dolore e il dramma del romanzo. Frequenti sono infatti – soprattutto nei contorti ragionamenti di Ines – i riferimenti al Vangelo. Emblematica sotto questo profilo la sua riflessione sulla parabola dei Talenti (“è sicura che se fosse capitato a lei […] avrebbe fatto lo stesso. L’avrebbe sotterrato, sissignore. L’aveva imparata la lezione. Altro che parabole. Per questo la nostra vita è diventata pianto e stridore di denti?”). Alla logica del cristianesimo, Ines oppone un netto rifiuto, escludendosi sia dalla dimensione di consapevolezza e accettazione dell’eroe tragico, sia dallo slancio evangelico. 
Il suo continuo, ostinato, richiamarsi alla ragionevolezza la condanna a un delirante – paradossale – inferno.