lunedì 19 ottobre 2015

Sebastiano Vassalli: qualche volta degli uomini rimangono le loro storie

Prima di cominciare a scrivere devo fare una confessione. La chimera di Sebastiano Vassalli (premio Strega e finalista al Campiello e quant’altro nel 1990) è forse l’unica lettura estiva consigliata dai miei professori del liceo che ho deciso deliberatamente di ignorare. Ebbene sì, ero una studentessa modello. Ma soprattutto, fino alla sua morte, avvenuta il 26 luglio scorso, non ho avuto il minimo desiderio di leggere nessuna delle opere di Vassalli (che questa settimana avrebbe compiuto 74 anni). Nella mia testa, mi ero immaginata dei noiosi romanzi storici, consigliati agli studenti delle scuole per completare la loro visione sul Seicento, per raccontar loro una storia uguale e diversa a quella dei Promessi sposi...

martedì 6 ottobre 2015

Recensione #71: Pista nera

Due ore strappate alla tv

Un commissario, pardon vicequestore scontroso e tormentato. Un giovane poliziotto volenteroso e due agenti imbranatissimi. Una cornice paesaggistica mozzafiato. Un misterioso delitto. Una vedova bellissima e inconsolabile.
L’ultimo Camilleri? Sbagliato. Il primo Manzini.
Lo dico fin da subito, per evitare qualsiasi equivoco. Pista nera è divertente, si legge in fretta e con piacere, e credo proprio che mi procurerò quanto prima anche gli altri episodi della serie. 
Ma detto ciò, che nessuno si aspetti di trovarci un capolavoro, e nemmeno qualcosa di molto originale. Semplicemente, una storia simpatica. Un paio d’ore strappate alle serie tv. 

Il vicequestore Rocco Schiavone è un romano verace, nato e cresciuto nella luce calda e nei lassismi della Capitale. Intelligenza acuta, fiuto da vendere e pelo sullo stomaco, sembra destinato a una brillante carriera in polizia. Invece qualcosa va storto. Anzi, Schiavone fa andare storto qualcosa. Il suo carattere irruento, il suo irrinunciabile senso di giustizia (anche a costo di scavalcare qualche regola) lo portano a commettere un passo falso, et voilà: il nostro protagonista, con il suo ingombrante bagaglio di fantasmi, viene trapiantato di punto in bianco ad Aosta, in punizione. 

È qui che lo troviamo, a quattro mesi dal trasferimento, ancora tutt’altro che abituato al nuovo ambiente: rigorosamente vestito di loden e clarcks, alle prese con uno spinoso caso di omicidio consumato sulle piste di Champoluc. Ad “aiutarlo” una serie di poliziotti più o meno simpatici e imbranati. 
Le cose si complicano quando il suo corpulento amico Sebastiano lo raggiunge da Torino, proponendogli un affare con cui arrotondare lo stipendio. Affare che prenderà presto le dimensioni di un caso parallelo a dir poco inverosimile, la cui unica ragione di esistere può essere solo – imperdonabilmente – il desiderio dell’autore di dotare il suo protagonista di un cuore d’oro. 
In effetti, quello che veramente non convince di Rocco Schiavone è la totale, piatta, aderenza allo stereotipo del poliziotto-burbero-dall’animo-gentile, e soprattutto dal senso di giustizia ineccepibile. Manzini vorrebbe creare un personaggio innanzitutto simpatico (da qui le fissazioni per il vestiario da città, la debolezza per le belle donne, la mano pesante coi sospettati, l’insofferenza per l’autorità), e poi sempre capace di scegliere il giusto, anche nelle situazioni più controverse, anche al di fuori dei confini della legge. Il risultato è quindi un eroe superficiale, tormentato solo in apparenza, e di fatto platealmente schierato dalla parte dei buoni. Un commissario – vicequestore – come te lo aspetteresti, in un’epoca di Montalbani e simili. 
Per quanto riguarda la trama, pur non essendo particolarmente esperta, direi che il mistero non è dei più intricati. Il colpevole si individua abbastanza in fretta, ma questo non toglie niente alla piacevolezza della lettura. In fondo diciamocelo: in tutti questi gialli che ultimamente affollano le nostre librerie, non ci importa tanto scoprire “chi è stato”. Quello che ci piace è vedere il protagonista/eroe, che un po’ ci assomiglia e un po’ ci esaspera, alle prese con una realtà che in qualche modo ricalca e racconta la nostra. Insomma, prima che buon detective, a Schiavone il lettore chiede di essere innanzitutto un umano credibile… (ed è qui che invece ahimè il vicequestore fallisce).
Vediamo se saprà riscattarsi nelle prossime puntate!

lunedì 21 settembre 2015

Recensione #70: Il clima ideale


Viaggio tra Milano e i Balcani inseguendo Il clima ideale

Michele è un lobbista timido, uno che non fatica a piegare il concetto di legalità al proprio interesse, ma anche uno che conta i passi per andare da un posto all’altro. Uno che non si impressiona né si fa influenzare facilmente, ma che poi non è tranquillo senza il suo yoyo.
L’unica autorità che riconosce senza discutere è quella di suo nonno Folco, psichiatra novantunenne, che condivide con il nipote l’interpretazione arbitraria della legge (“Scusa una cosa”, disse [Michele] ad alta voce, “ma perché non paghi le spese di condominio?” “Ho novant’anni” esordì il nonno, con tono solenne, “se devo scegliere a chi dare i miei soldi, preferisco sia una persona a cui voglio bene. Ad esempio tuo cugino, che almeno se li spende con qualche bella ragazza”. P. 57).
In effetti è proprio la volontà ferrea e bizzarra di questo vecchietto inarrestabile (il personaggio più pensato dell’opera, a detta dell’autore) a mettere in moto la trama del romanzo...

domenica 6 settembre 2015

Recensione #69: Villette

Ultimo lusso dell’estate

Premessa doverosa e forse vagamente eretica. Non sono un’appassionata di romanzi ottocenteschi inglesi. Ho letto Orgoglio e Pregiudizio, l’ho anche apprezzato, ma non sono tra quelli che lo considerano il libro della vita. Tanto più che ultimamente faccio abbastanza fatica a leggere qualsiasi cosa non sia stata scritta negli ultimi dieci anni… colpa della mia vita troppo frenetica, o dell’ansia di perdermi qualche geniale novità, non saprei.
Quest’estate però, complice la nullafacenza delle giornate agostane al lago, mi sono ritrovata ad aver voglia qualcosa di più riflessivo dei soliti romanzi contemporanei inarrestabili, coi loro salti temporali e i loro colpi di scena. E prima ancora che il desiderio prendesse una forma esplicita, mia cugina Laura – indimenticabile compagna di giovanili letture estive – mi ha messo in mano Villette di Charlotte Brontë. Un libro che non avrei mai scelto da sola, ma che si è rivelato esattamente quello di cui avevo voglia e bisogno prima di tornare ai ritmi incalzanti della vita milanese. 
Ultima nota prima di venire al punto: se, come me, leggete l’edizione di Fazi del 2013, non fatevi ingannare (né spaventare) dal risvolto di copertina: presenta l’opera come una specie di romanzo rosa, con un’eroina divisa tra due pretendenti… niente di più lontano dalla verità! La storia d’amore c’è, ma sicuramente non è così banale. 

Villette è il racconto amaro e profondo di una vita piegata dalla sofferenza. Lucy Snowe, protagonista e narratrice dell’opera, è una giovane inglese senza bellezza e senza fortuna: ritrovatasi sola al mondo per una serie di disgraziati quanto rapidi eventi, parte alla volta del continente in cerca di un impiego onesto con cui mantenersi. Si sistema dunque a Villette, cittadina immaginaria che la Brontë plasma sul modello di Bruxelles, dove trova lavoro come istitutrice. 
Il romanzo racconta la vita di Lucy a Villette: i suoi tentativi di ricominciare da capo in un paese straniero, il suo impegno, le sue fatiche, i suoi timidi successi e le sue segrete, inconfessate, delusioni. Le sue giornate sono costellate di tutte quelle rassicuranti piccole incombenze che ci si aspetta da un romanzo inglese dell’Ottocento. Gli snodi della trama, agli occhi del lettore contemporaneo, risultano convenzionali, quasi sempre prevedibili. Ma c’è dell’altro. A fare da contraltare alla prevedibilità della vicenda, intervengono la finissima capacità di osservazione, lo spirito critico e pungente, e la perfetta verosimiglianza della figura di Lucy. 

La protagonista ci appare come una creatura ferita, pressoché incapace di affermare la propria volontà e i propri desideri di fronte a chiunque. Eppure, allo stesso tempo, potremmo definirla una figura stoica, dotata di forza d’animo immensa, che le permette di fronteggiare senza un gemito, in completa solitudine, i dolori e gli abbandoni continui a cui la sorte pare averla destinata. Queste tensioni tra sofferenza e capacità di sopportazione, tra estrema indipendenza di pensiero e impotente remissività di fronte agli altri, sono almeno in parte rappresentazione del contrasto - fondamentale nell’economia dell’opera - tra la fede cattolica e quella protestante. Unica e incompresa campionessa di quest’ultima confessione è la stessa narratrice: se da un lato infatti la sua fede le proibisce di abbandonarsi alla consolazione della Grazia, dall’altro le dà la forza di riportare continuamente la propria sorte a un orizzonte più ampio. 

Insomma, a rendere perfetto il personaggio di Lucy – e in un’ultima analisi a dare respiro all’intero romanzo – è la sua maestosa statura etica e morale. Dimensione, questa, che la protagonista prende almeno in parte in prestito dalla sua creatrice. Charlotte Brontë scrisse infatti quest’opera (l’ultima) con lentezza, nella fatica del lutto: negli otto mesi precedenti alla stesura, aveva perso un fratello e due sorelle. È quindi la stessa autrice a vivere l’intreccio tra lotta e rassegnazione, tra debolezza e coraggio, che costituisce l’ossatura del romanzo. Ed è infine nella scrittura – per Charlotte come per Lucy – che risiede l’unica possibilità di distacco dal dolore. 
Il racconto si mantiene infatti sempre sulle tinte contenute del romanzo, senza degenerare mai nella tragedia. Anche nello splendido epilogo, l’improvviso innalzamento poetico viene immediatamente ricondotto nel solco dell’ordinaria quotidianità dei personaggi. Come dire che l’unico modo di sopravvivere al dolore è concentrarsi sulle piccole cose di tutti i giorni, rassegnarsi alla routine, e, come i veri eroi tragici, accettare il proprio destino.

domenica 16 agosto 2015

Recensione #68: Incanto

Ricordi di un’estate felice

Incanto di Pietro Grossi comincia come una favola: una vecchia strada misteriosamente asfaltata nel giro di una notte, una moto ritrovata in un capanno, tre amici inseparabili alle soglie dell’adolescenza. Ecco gli ingredienti per un’estate indimenticabile a San Filippo, borgo sperduto in mezzo alla Toscana. 
Poi si sa, gli anni passano, le cose cambiano e gli amici si allontanano: c’è chi tenta la carriera da pilota al Motomondiale, chi vince una borsa per studiare matematica all’estero, e chi deve amministrare il patrimonio di famiglia… in un primo momento, la distanza è solo fisica, e le vita di Greg, Jacopo e Biagio sembrano correre su binari paralleli, come se la forza dei ricordi comuni potesse tenerli ancora legati. E invece, pian piano, ognuno prenderà la sua strada, e dell’infanzia a San Filippo non resterà che il ricordo, inciso nelle memorie come il momento dell’equilibrio perfetto, quello in cui tutto poteva ancora succedere…
Ecco allora che quella che sembrava una favola estiva, raccontata con la leggerezza e la precisione delle memorie di gioventù, si trasforma in una caccia ai motivi, alle svolte critiche, ai primi sintomi del cambiamento, che – chissà – forse nascondono la chiave per comprendere la solitudine incalcolabile dell’età adulta. 

La storia procede per continue analessi, inframmezzate dai commenti della voce narrante (quella di Jacopo, il matematico-fisico che, forse anche a causa delle derive dei suoi studi, è naturalmente portato a ricercare nella propria esperienza le tracce di un disegno, che illumini il cammino tortuoso che la vita l’ha portato a compiere). L’espediente dei flashback è complessivamente riuscito, e contribuisce a dare un certo movimento e una discreta originalità alla costruzione della storia. Tuttavia, non tutti i ricordi sono effettivamente funzionali allo svolgimento della trama, e, a tratti, si ha l’impressione di perdersi nel flusso dei pensieri dell’io narrante. Di più, che il tentativo dell’autore sia quello di alzare il tiro e raccontare altro, oltre alla storia sua e dei suoi due amici: di rendere l’idea della vita al paesello, ma anche quella della fatica dell’uomo moderno, disperso nell’orizzonte immenso del mondo globalizzato. 
Il risultato è un romanzo in discesa, almeno in termini di freschezza e godibilità: la prima parte, quella dedicata alle avventure di gioventù dei protagonisti, con i suoi dialoghi pieni di sottintesi e non detti e quei lievi dialettismi, è potente e nostalgica e al tempo stesso lieve; la seconda, in cui si raccontano i percorsi paralleli dei tre amici, è più densa di storia ma perde un po’ di lucentezza; la terza infine, è intitolata “il dubbio” e offre al lettore i tasselli mancanti del puzzle, oltre che uno spaccato sulla vita newyorkese del narratore. Così ricomposto, il quadro è completo ma anche desolante. E, ora della fine, non all’altezza delle aspettative dei primi capitoli. 
Se questo progressivo abbassamento sia o meno voluto, non saprei dire; la sensazione però è che Grossi, nel tentativo di costruire un affresco complesso, perda qualcosa della sua iniziale capacità di incantare...


domenica 9 agosto 2015

Recensione #67: Orrore vesuviano

Una donna troppo bella per un paese troppo brutto

Se dovessi trovare una definizione per le letture di quest’estate, 
probabilmente sceglierei: “l’estate delle fiabe”. Tra Chi manda le onde, La vita sessuale dei nostri antenati e in un certo senso anche L’estate infinita, mi sembra di imbattermi continuamente in grandi e complessivamente poco riuscite favole sull’Italia di ieri e di oggi. Come se questo Paese si raccontasse meglio attraverso il filtro della fantasia. O, chissà, magari sono io che spero di intrattenermi con letture apparentemente leggere e invece finisco sempre a cercare il senso della vita.
L’ultimo romanzo di questa non troppo fortunata serie è Orrore vesuviano. Un libro di cui, nel bene e nel male, due settimane dopo che l’ho finito, non ricordo già quasi più niente. Come si dice, rapido e indolore.
Ad ogni modo, con un discreto sforzo di memoria, sono riuscita a recuperare qualche stralcio della trama, che riassumerei così: "la storia di una donna troppo bella in un paese troppo brutto". Il paese in questione è Orrore Vesuviano, triste cittadina (ovviamente frutto della fantasia dell’autore) aggrappata al Vesuvio, crogiolo e metafora non troppo brillante delle miserie dell’Italia contemporanea, devastata dalla malavita, dalla spazzatura e dall’indolenza della popolazione. La donna troppo bella è invece Aurelia Scala, splendida quanto sfortunata fioraia, apparentemente destinata a veder morire in modi trucidi e fantasiosi tutti i suoi numerosi spasimanti. Forse che questi sanguinosi delitti hanno a che fare con i misteriosi riti compiuti da suo figlio Luca, il quale, sognando di avere mammà tutta per sé, desidera ardentemente la scomparsa di tanti insistenti innamorati?
Mentre i misteri intorno al negozio della bella fioraia si infittiscono, il piccolo Luca si ritrova a fare i conti con tante domande sulla propria storia: chi è suo padre? E perché tutti in paese sembrano sapere qualcosa sul suo conto che sua madre si ostina a non rivelargli? 

Le narrazioni che adottano il punto di vista dei bambini non sono mai facili: è difficile per un autore adulto trovare un tono che sia ingenuo e anche credibile; non da uomo maturo in miniatura, ma nemmeno da imbecille. Devo dire che sotto questo profilo Orrore vesuviano non è male: la scrittura di Francesco Costa è allegra e scorrevole, e il giovane protagonista risulta piuttosto simpatico; la trama forse un po’ scontata e un po’ ripetitiva, ma non malvagia. Inoltre – e questa è una vera rarità – dopo tante peripezie, il finale non è disturbante né banale. Insomma, se lo si pensa come una semplice fiaba, direi che non è niente male. Se invece si pretende di farne una metafora della società contemporanea, non ci siamo proprio: il paragone con l’Italia di oggi è superficiale e pieno di luoghi comuni, e i personaggi, che non si capisce se dovrebbero rappresentare delle caricature di diversi tipi umani, non sono poi così spassosi. E soprattutto – come dicevo – dopo pochi giorni, tutta questa ironia e questi paradossi sono già finiti nel dimenticatoio…

martedì 4 agosto 2015

Recensione #66: L'intestino felice

I segreti dell’intestino

Finalmente ho letto L’intestino felice. Erano mesi che sentivo parlare del fortunato best seller dedicato all’organo meno conosciuto e forse più bistrattato del nostro corpo, e ora, finalmente, faccio parte anch’io delle schiere dei suoi lettori. 
A dire il vero, quando in tempi non sospetti la mia amica Maria Angela, che ha partecipato all’editing dell’opera, mi ha raccontato per la prima volta alcune delle curiosità di questo strano libro (tipo che quelli che hanno la toxoplasmosi sviluppano dei comportamenti pericolosi che tendono a trasformarli in cibo per gatti) sono rimasta un po’ perplessa: a che scopo dedicare un intero libro alle caratteristiche delle produzioni intestinali? Poi però, ripensandoci, mi sono incuriosita. In fondo è vero che non sappiamo granché di quanto accade in quel lunghissimo tubo dentro la nostra pancia, che pure ha il potere di influenzare tanto significativamente le nostre giornate … 
Devo dire che almeno in parte la lettura si è rivelata all’altezza delle aspettative.

La giovanissima Giulia Enders (solo 25 anni, grandissima invidia!), dottoranda presso l’istituto di microbiologia e igiene ospedaliera di Francoforte sul Meno, con l’aiuto di sua sorella Jill (laureata in design della comunicazione con specializzazione in divulgazione scientifica), riesce bene nel suo intento: raccontare in modo piuttosto chiaro anche a dei profani come me lo stupefacente cammino che compie il cibo dentro il nostro corpo. 
Grande attenzione viene poi riservata alla materia di studi della Enders, ovvero la flora intestinale: la vita, i delicati equilibri e le alterazioni delle migliaia di esseri ospiti delle nostre interiora è in effetti argomento di grande fascino. Secondo l’autrice, questa popolazione è talmente importante che dovrebbe essere considerata come un vero e proprio organo! 
Mi sarei aspettata invece un maggiore approfondimento sul tema delle intolleranze/allergie, e soprattutto sulle relazioni tra cervello e intestino, su cui mi pare non si rifletta abbastanza… non mi sarebbe dispiaciuta (ma forse questa è solo mia curiosità morbosa) anche qualche indicazione pratica in più, come quelle di “mi siedo correttamente sul water?” e della “piccola lettura sulle feci”.
Ad ogni modo, L’intestino felice ha senz’altro il merito di trattare in modo semplice e senza inutili vergogne un argomento a cui, volenti o nolenti, pensiamo tutti i giorni e di cui – almeno in genere – non parliamo volentieri. Quindi ben venga!

sabato 1 agosto 2015

Recensione #65: Storia di un corpo

Diario di un corpo

Non sono sicura che Storia di un corpo sia un libro da consigliare per l’estate. Senz’altro è una lettura piacevole (del resto con Pennac non poteva essere altrimenti), ma a tratti può rivelarsi anche faticosa. Sicuramente è un libro da leggere in fretta, per non perdere il filo. Si tratta in effetti di un vero e proprio diario, e, in quanto tale, per il lettore tenere il ritmo non è sempre facile. Penso che se a qualcuno capitasse di leggere il mio, per esempio, lo troverebbe incoerente e mal costruito… a periodi di delirio grafomane, con pagine e pagine su un singolo evento, seguono interi anni di pressoché totale silenzio. Ma in fondo, di solito uno non tiene un diario per farlo leggere. Che poi a volte capiti, è un’altra storia. 
In questo caso, per esempio, Daniel Pennac si è trovato tra le mani - e successivamente ha deciso di pubblicare - una pila di quaderni che il padre della sua amica Lison le ha lasciato in eredità dopo la sua morte avvenuta nel 2010. 

Avvertenza: l'opera non ha niente a che vedere con il classico diario intimo: i sentimenti, la vita professionale, le opinioni, le conferenze e le “battaglie” sociali di quest’uomo “taciturno, ironico, dritto come un fuso, accompagnato da una reputazione internazionale di vecchio saggio di cui non si curava minimamente” entrano solo raramente nelle pagine. Si tratta piuttosto di un diario fisico. Il diario di un corpo, iniziato a dodici anni per vincere l’incontrollabile paura dello specchio. Il giovane narratore, infatti, ha vissuto l’infanzia all’ombra di un padre reduce sconvolto dalla prima guerra mondiale; un uomo inconsistente, ormai ridotto a fantasma, a cui il bambino ha cercato disperatamente di assomigliare, fino a diventare un ragazzino “trasparente”, preda delle prepotenze dei coetanei. Ebbene, giunto alle soglie dell’adolescenza, il protagonista decide di plasmare il proprio corpo, di prenderne possesso e diventarne padrone. Strumento deputato a questa operazione è, oltre al costante esercizio fisico, la parola scritta. La pagina su cui fissare il pensiero diventa quindi il ponte tra una mente e un corpo apparentemente lontanissimi. 
È sorprendente l’acutezza con cui il ragazzino prende coscienza e trova rimedio a questo scollamento, trasformandosi ben presto in un giovane sano e forte, protagonista di una vita densa e avventurosa. 
Superati però i rivolgimenti e le conquiste dell’adolescenza, la narrazione si fa però più faticosa: l’età adulta non ha lo stesso respiro filosofico della gioventù, e spesso le pagine si riducono alla cronistoria di grandi e piccoli acciacchi. Un ulteriore scarto si ha infine nella parte dedicata alla vecchiaia: il decadimento fisico viene trattato con delicatezza, senza piagnistei. Come un progressivo spegnimento, che trasmette al lettore la serenità del destino compiuto. 

In generale, comunque, trovo che, ben più della parabola del fisico e degli affetti del protagonista, siano degne di nota le riflessioni di carattere generale: il corpo presentato come “compagno di viaggio”, vera e propria “macchina per essere”. “Giardino segreto” coltivato insospettabilmente nei ritagli di una vita pubblica e privata ricchissima. Perché tutta questa attenzione alla segretezza, alla privatezza della sfera fisica? In primo luogo senz’altro per una questione generazionale: il protagonista, nato nel 1923, si descrive come un “borghese della sua epoca, i quelli che usano ancora il punto e virgola e non si presentano mai al tavolo della prima colazione in pigiama, ma freschi di doccia, ben rasati, nel loro impeccabile abito da giorno”. Inevitabile quindi il riserbo, l’istinto di preservare in una dimensione pudicamente privata la fisicità, sentita probabilmente come qualcosa di cui vergognarsi. 
Eppure – e questo è forse l’aspetto che rende attuale la Storia di un corpo – nonostante la sua continua sovraesposizione, “sui rapporti che la mente stabilisce con esso [il corpo] in quanto scatola delle sorprese e distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi”. Anche oggi, dunque, schiavi ancora e nonostante tutto del dualismo di Cartesio, fatichiamo a concepire la nostra mente e il nostro corpo come una cosa sola. E forse è proprio per questo che il tentativo dell’autore del diario di ricomporre le due dimensioni ci risulta così riconoscibile, e in definitiva, simpatico.

sabato 25 luglio 2015

Recensione #64: Fossi in te io insisterei

Tentativo di lettera al padre

Per prima cosa bisogna dire che da sola non avrei mai comprato questo libro. Non lo dico per giustificarmi, anzi: sono contenta di essermi imbattuta in qualcosa che secondo i miei gusti non avrei mai scelto. Ma tant’è. Me l’ha messo in mano mia madre, che a sua volta l’ha acquistato al mare credo in mancanza di idee migliori. E poi l’ha letto mio fratello, che da almeno tre anni non riesce a superare la pagina 20 di qualsiasi libro non sia un manuale di giurisprudenza, ma ha finito questo in due giorni.

Entrambi mi hanno detto: “non è un capolavoro, ma si legge volentieri. Fammi sapere che ne pensi”. 
E così, come sempre incuriosita, me lo sono fatto prestare e l’ho letto, e ora posso dire la mia. Condivido senz’altro sul fatto che non è un capolavoro. Che questo Carlo G. Gabardini (che poi sarebbe Olmo di Cameracafé, che sorpresa) avrebbe potuto metterci qualcosa in meno di 237 pagine per prendere coscienza della morte di suo padre. E che, ciò nonostante, Fossi in te io insisterei non è una lettura spiacevole. 
Ma cerchiamo di andare con ordine. 
Il libro è pensato come una lunga lettera che l’autore scrive al padre morto ormai da quindici anni, nel tentativo di fare ordine nella sua vita e di mettere una sana distanza tra sé e il fantasma del genitore, che – si intuisce – continua a influenzare le scelte e soprattutto le non-scelte dei suoi giorni. Fin da subito, infatti, Gabardini si descrive come un personaggio incapace di prendere anche la più piccola decisionie. A paralizzarlo è la paura di sbagliare; o forse quella di deludere la proiezione di suo padre che parla nella sua testa; o forse ancora – come dice mio fratello – l’indecisione cronica di questa generazione senza guide e senza valori, che spinge le persone a volersi sempre lasciare tutte le porte aperte… o forse tutti questi fattori e molti altri ancora. Fatto sta che, giunto ai quarant’anni, il nostro Olmo si ritrova a voler dare una svolta alla sua vita; e per farlo intuisce di dover fare i conti con un padre che, oltre all’affetto e alla tenerezza e alla determinazione, gli ha trasmesso la paralizzante idea che “o perfetti o niente”. Che ben presto si rivela un fardello piuttosto pesante da portare. 
Nel tentativo di fare ordine, l’autore ci racconta sommariamente la vita sua e della sua famiglia fino alla scomparsa del padre. Una famiglia numerosa, cresciuta in armonia e serenità, piena di aneddoti che fanno simpatia… (ma questo forse perché tra avvocati, senso del dovere e ritorni sul Lago Maggiore tra le pagine ho respirato una certa aria di casa). 
Dopo la morte del capofamiglia, però, le cose si inceppano, sia nella vita del povero Carlo G., sia – ahimé – nella narrazione, che si fa più frammentaria e disordinata. 
Nella seconda dell’opera, Gabardini vorrebbe probabilmente elencare le tappe salienti della sua storia; di fatto invece infila una serie di aneddoti più o meno autocelebrativi (a che scopo per esempio riportare tutto il canovaccio del suo filmato contro l’omofobia? Sorge il dubbio che qualcuno volesse farsi bello agli occhi del papà… e forse anche dei lettori), tra cui spiccano quelli legati all’attivismo per i diritti dei gay. Che però non credo c’entrino granché col padre, e che l’autore troppo spesso affronta con l’aria di volersi vestire da scemo, e di fatto in modo piuttosto superficiale... Il risultato è che a un certo punto si perde un po’ il filo: di cosa stiamo parlando? Di una famiglia felice, di un padre ingombrante e non perdonato e in fondo neanche mai apertamente accusato, di diritti degli omosessuali, o di cos’altro? Probabilmente solo di uno che non sa bene cosa sta facendo e perché, e piuttosto onestamente cerca di fare chiarezza nel suo animo. 
Il tentativo è senz'altro ammirevole. L'unico dubbio – al di là della simpatia che suscita il personaggio quando non scade nella macchietta – è se di tutto questo groviglio avesse senso fare un libro.

lunedì 20 luglio 2015

Renato Serra: attualità del "lettore di provincia"

Ogni volta che mi capita di leggere qualcosa di Renato Serra, mi stupisco e rammarico del fatto che la cosa più nota associata al suo nome sia un cavalcavia milanese pieno di autovelox.
La vita breve e defilata, la produzione letteraria discontinua e spesso inconclusa, le debolezze sul piano umano del “lettore di provincia” non bastano infatti a cancellare l’acutezza del suo sguardo e delle sue parole. Parole che ancora oggi, a cento anni esatti dalla sua scomparsa, sono in grado di raccontare con straordinaria efficacia la crisi del ruolo del letterato nel Novecento (e forse anche del Duemila…).

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lunedì 13 luglio 2015

Recensione #63: Urbino, Nebraska

L’incantesimo della Città Ideale

Finalmente un libro da consigliare per l’estate. Non proprio una novità editoriale (è del 2013), ma poco male. Urbino, Nebraska è un’opera appassionante e non facile, sulla provincia e la provincialità italiane, sui drammi, le piccolezze, le frustrazioni e i dubbi degli abitanti di una realtà destinata a rimanere ai margini.
Vera protagonista della narrazione è Urbino, nel titolo significativamente accostata al Nebraska, paese con cui condivide la condizione di provincia defilata e deprimente, e da cui, che si fugga o si rimanga, sempre in qualche modo si rimane condizionati.
È quanto accade a Zena, Nicola, Mattia e Federico, protagonisti dei quattro racconti che compongono l’opera, sottilmente invischiati nella trama di ricordi, riferimenti, avvenimenti e relazioni che costituiscono il cuore pulsante e paralizzato della città. Una trama sottile, di cui quasi perdiamo le tracce tra le pagine, ma anche forte e mortifera come la tela di un ragno. Emblematica da questo punto di vista la morte di Ester e Bianca, due sorelle stroncate da un’overdose alla Fortezza Albornoz, la cui scomparsa continua a riproporsi e a condizionare i personaggi dei racconti: Zena, studentessa piena di paranoie, vorrebbe portare conforto alla loro madre, ormai anziana e afflitta da demenza, che sarebbe poi la zia di Nicola, aspirante monaco con un passato da promessa della musica. E ancora: le due ragazze ossessionano anche Jacopo Martelli, scrittore fallito, e di riflesso il suo amico Mattia, che da Urbino è fuggito tanti anni fa, ma che a Urbino sempre ritorna, col pensiero e nei fatti, schiacciato da legami che non sa far diventare adulti. Infine, anche il piccolo Federico, protagonista dell’ultimo racconto, a cui è affidata l’unica breve nota di speranza del libro, viene toccato dal dramma di Ester e Bianca, che pure si è consumato tanti anni prima. A trovare i corpi delle due ragazze è stato infatti suo nonno, e ora i loro spiriti tornano a far visita al bambino sotto forma di uccellini.

Soprattutto quelle dei primi tre racconti sono storie di quotidiana angoscia, che si gonfia e rimbalza tra le mura e le squallide periferie della Città Ideale, senza trovare sollievo o scioglimento. Storie di personaggi che, in modi e momenti diversi, cercano disperatamente la propria strada e si scontrano con le proprie insanabili debolezze. Perché di Urbino e dei suoi fantasmi, sembra dirci l’autore, non ci si libera.
La morte di Ester e Bianca è forse l’unico fatto (per il resto sono tutti tentativi, pensieri, aspirazioni e dubbi) dell’opera, e non a caso è relegato in un passato quasi remoto. Ma ciò nonostante, Zena, Mattia, Nicola e tutti gli altri, incapaci di decisioni e di vita propria, gravitano intorno al loro dramma con pruriginosa insistenza. In questo senso, quindi, Urbino si manifesta come la vera e propria “costola mancante” dei suoi abitanti (a questo proposito, si legga l’interessante intervista all’autore su La Balena Bianca).
Alessio Torino sa raccontare le vibrazioni minime e i più piccoli movimenti dell’animo umano, il susseguirsi dei giorni sempre uguali e sempre più inutili con una precisione e una forza rare, con frasi brevi, solo apparentemente semplici, che lasciano al lettore – finalmente – la fatica e lo spazio di insinuarsi tra le pieghe dei pensieri dei protagonisti.

Gli amanti dell’azione e del lieto fine, ma soprattutto dei finali precisi, le storie che si chiudono senza sbavature all’ultima pagina, stiano lontani da Urbino, Nebraska. Tutti gli altri, invece, se lo procurino quanto prima. 

sabato 11 luglio 2015

Recensione #62: Chi manda le onde

Leggerezza mancata


A volte penso che per capire un libro (o una tesi di laurea) basta leggere la pagina dei ringraziamenti. Prendiamo Chi manda le onde: se invece di farmi incantare dalla copertina marittima e dal solito specchietto per le allodole del “finalista al premio Strega” (che poi, diciamocelo, a parte Lagoia, tutti gli autori che ho incontrato che hanno avuto a che fare con lo Strega sono stati una delusione), avessi letto subito che Fabio Genovesi conclude i suoi ringraziamenti con un ridicolo “ci si vede”, forse mi sarei risparmiata questo improbabile mattone estivo. 

Serena è una donna bellissima (di quelle bellezze noiosamente libresche che rimangono intatte, anzi migliorano, nonostante gli anni le gravidanze i lutti e i pantaloni militari) e irrequieta. Madre single di due adolescenti originali e affascinanti (tralasciamo gli improbabili dettagli sui loro concepimenti), si barcamena come può tra il lavoro da parrucchiera e le maldicenze di Forte dei Marmi in bassa stagione. 
Quando il suo piccolo mondo imperfetto le crolla addosso all'improvviso, a risollevare quel che resta della sua vita intervengono una serie di improbabili personaggi: da Sandro, quarantenne fallito, invariabilmente innamorato di lei dai tempi del liceo; a Zot, orfanello radioattivo appassionato di Claudio Villa; a Ferro, ex bagnino ex combattente che si oppone akla minaccia russa dalla sua casetta nel bosco, cattivissimo in apparenza ma con un cuore d’oro.
Oltre a tutti questi attori, a metà tra lo scontato e l’incredibile, le pagine sono affollate da una pletora di figuranti completamente superflui ai fini della trama, che probabilmente nelle intenzioni dell’autore dovevano dar vita a un affresco brulicante di vita, ma che di fatto sono solo un’accozzaglia di storielle senza un perché. Ecco allora il prete appassionato di documentari, la vecchia che ripensa alle scappatelle di gioventù, la nasona la notte del suo addio al nubilato, l’appassionato di tecniche militari che in realtà è gay ma ancora non lo sa. 
Come se non bastasse, a complicare ulteriormente il quadro, Genovesi, assume di volta in volta il punto di vista di quasi tutti i personaggi (alcuni sono esclusi da questo privilegio non si sa perché), prendendo addirittura il Tu quando parla per Serena e l’Io quando invece illustra i pensieri di sua figlia Luna - che tra parentesi ha tredici anni, non quattro – nel disperato tentativo, tra una metafora e una riflessione pseudoesistenziale, di spiegarci come dovrebbero sentirsi una madre single in crisi, un disoccupato nel momento in cui trova il porcino più grande del mondo, un’albina quando si tuffa in mare a settembre. 

Bene, di cosa parla Chi manda le onde in tutto questo turbinio di voci, suoni e parole? Direi di tante cose ma soprattutto di nessuna. Ho l’impressione che vorrebbe essere un romanzo che affronta con leggerezza dei temi pesanti, come la morte, la disoccupazione, la solitudine, la diversità. Solo che non ci riesce. La leggerezza è un dono, e mi pare che a Genovesi – almeno in questo libro, di altri non so dire – manchi. Nel tentativo di trasformare il suo dramma in una fiaba, l’autore fa un gran pastrocchio di sentimenti e suoni, che ora della fine innervosisce solamente.

sabato 27 giugno 2015

Recensione #61: La vita sessuale dei nostri antenati


Saga familiare per l’estate

In principio fu L’incredibile storia di Lavinia. Poi Ascolta il mio cuore, che Tita mi leggeva in giardino, aspettando di andare in spiaggia, in un’estate di ormai più di vent’anni fa. Poi Polissena del Porcello, Re Mida ha le orecchie d’asino, Diana Cupido e il commendatore e tutti gli altri, divorati nella nicchia vicino alla finestra di camera mia.
I romanzi di Bianca Pitzorno hanno modellato la mia infanzia, nutrito la mia fame di storie per tutti gli anni delle elementari. Poi, come per tutti, le cose sono cambiate. La scuola ti impone di leggere altro, tu vuoi dimostrare di capire tutte le parole dei libri “da grandi”, e ciao. Improvvisamente Bianca Pitzorno e le sue eroine coraggiose assumono le tinte tenui delle letture del passato.

E invece capita che un giorno, vagando per il nuovissimo e deludente megastore della Mondadori, ti ritrovi davanti un malloppo di quasi 500 pagine firmato da lei. Il titolo non lascia dubbi: si tratta di un romanzo “da grandi”. E tu non resisti, lo compri, pensando che tanto tra poco si va al mare, e tutte quelle pagine troverai un modo per consumarle sotto l’ombrellone. Invece sotto l’ombrellone non ci arriveranno mai, perché le hai archiviate in un paio di notti milanesi, complici l’insonnia, la gravidanza o chissà che.
Mettiamola così: se lasciarsi divorare come si divora un libro da ragazzini è un parametro per misurare il valore di un’opera, La vita sessuale dei nostri antenati è un romanzo perfettamente riuscito. Se il nome della Pitzorno vi evoca stupendi pomeriggi d’infanzia, questo libro avrà il potere di riportarvi indietro nel tempo; alla sete infinita di pagine, solo per scoprire come va a finire la storia… Se però cercate qualcosa di più, se avete voglia di leggere un vero romanzo “da grandi”, direi che è meglio girare al largo.

La vita sessuale dei nostri antenati  è senz’altro la saga familiare più lunga (la storia è ambientata negli anni ’90, ma con i flashback si va indietro di parecchi secoli) e ricca di colpi di scena che abbia letto negli ultimi anni. Tra annegamenti, aborti, figli rifiutati e tradimenti, le famiglie Bertrand e Ferrel, rintanate nella quiete ovattata delle cittadine immaginarie di Donora e Ordalé, potrebbero tranquillamente fare invidia a quelle di Beautiful. Qui in più ci sono il gusto dell’autrice per il racconto, la sua indubbia capacità narrativa, asservite però a un fine che non è molto più alto di quello di Polissena del Porcello.

Voglio dire, non basta scrivere “vita sessuale” nel titolo, né far iniziare il romanzo con un orgasmo, per superare la struttura e il livello di un romanzo per ragazzi. Così come non basta sostenere che la protagonista è una femminista senza pregiudizi perché poi risulti effettivamente più  emancipata dei suoi parenti bigotti e provinciali. E soprattutto non basta troncare una storia a un certo punto per creare un finale sospeso! Per 500 pagine, con La vita sessuale dei nostri antenati sono tornata bambina. Non mi si può chiedere poi, arrivata alla fine, di rinunciare a sapere chi era uomo e chi donna, chi era figlio di chi e se lei torna col fidanzato. Questa è una vera e propria scorrettezza. Dall’autrice dell’Incredibile storia di Lavinia proprio non me l’aspettavo. 

lunedì 22 giugno 2015

Recensione #60: L'estate infinita


Infinita nostalgia di estate

Tra caldi epici e ricadute novembrine, anche quest’anno siamo arrivati alla metà di giugno. I maturandi lottano contro la terza prova, e io mi ritrovo a sognare eterni pomeriggi in spiaggia, in compagnia di un bel romanzone italiano. E quale libro migliore di L’estate infinita di Edoardo Nesi per amplificare la mia già preoccupante voglia di vacanza?

L’atmosfera del libro è perfettamente intonata al titolo: fin dalle prime pagine, si respira il clima rarefatto delle interminabili estati dell’infanzia… quelle in cui sei sereno, e sprechi un sacco di tempo, ma fai anche un sacco di cose, e comunque non riesci a pensare a settembre, all’autunno e alla scuola.

L’estate infinita dell’opera è quella dell’Italia degli anni Settanta. Una specie di isola felice, in cui chiunque può arricchirsi e coronare i propri sogni, a patto – questo sì – di lavorare come un matto.

lunedì 1 giugno 2015

Recensione #59: Troppa importanza all'amore

La consapevolezza dell'amore

Per prima cosa bisogna dire che Troppa importanza all’amore è un titolo bellissimo.

Giustamente ermetico, giustamente evocativo, ti fa pensare che il libretto elegante che hai tra le mani, poche pagine, carta ruvida e copertina minimal, ti dirà qualcosa che ancora non sapevi o non avevi sentito sulle storture delle relazioni nella società contemporanea.

Questa la disposizione d’animo con cui mi sono affacciata all’ultima raccolta di Valeria Parrella: otto racconti brevi, voci e argomenti diversi, e una lingua flessibile e affilatissima asserviti a un ambizioso obiettivo: catturare la scoperta, e la conseguente accettazione, della propria condizione da parte dei personaggi.

lunedì 18 maggio 2015

Recensione #58: Sette anni di felicità

Un concentrato di vita

Mi sono fatta convincere a leggere Sette anni di Felicità di Etgar Keret da una bella recensione, trovata non ricordo dove, in cui si diceva che il libro parla di padri e figli, guerre, feste, ebraismo e persecuzione, matrimonio, scrittura… insomma, tutto quello che ci si aspetta di trovare nel resoconto di sette anni di vita di uno scrittore israeliano di successo.

Sette anni di felicità in effetti è un’opera autobiografica: sette parti (una per anno) e trentasei racconti brevi, ognuno dei quali racconta un episodio della vita a Tel Aviv dell’autore, dalla nascita del figlio Lev alla morte del padre.

domenica 10 maggio 2015

Recensione #57: Dentro


La vita da Dentro


Approfitto di questa domenica di sole e pace per provare a recuperare le buone abitudini, e scrivere due parole su Dentro, l’incensatissima e pluripremiata opera d’esordio di Sandro Bonvissuto. 


Tre racconti non autobiografici che ripercorrono a ritroso l’esistenza di un unico io narrante: si comincia con l’esperienza del carcere di Il giardino delle arance amare; si continua con la storia di un’esclusiva amicizia adolescenziale, tra le storture del sistema scolastico di Il mio compagno di banco; e si conclude con le drammatiche scoperte infantili di Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta.

Innanzitutto una precisazione sul titolo: “Dentro” non è - come credevo - un richiamo alla prigione di cui si parla nel primo e più celebrato racconto; piuttosto, direi che è un riferimento a una dimensione di appartenenza: in tutti e tre i racconti, infatti, il protagonista-narratore si trova, per motivi sempre diversi, a far parte di un gruppo sociale, un sottoinsieme di persone in qualche modo ai margini del sistema. In Il giardino delle arance amare il microcosmo in questione è quello della cella, con le sue regole, le sue frustrazioni e le sue amicizie forzate. In Il mio compagno di banco, è la realtà della “diarchia”, la relazione di completa simbiosi del protagonista con l’amico, che porta i due a schierarsi compatti contro genitori e istituzioni. Nel terzo racconto, infine, il gruppo di cui l’io narrante vuole far parte è quello dei “bambini che sanno andare in bicicletta”, ben distinto da quello dei bambini piccoli, che ancora non sanno andarci, ma anche fieramente opposto al mondo degli adulti.
Tutta l’opera si costruisce quindi sull’opposizione tra un mondo “fuori” (i liberi/i compagni di classe/gli altri bambini e i grandi) e la realtà “dentro” cui l’io narrante si colloca – paradossalmente – con sempre maggiore consapevolezza. Perché, se in carcere le relazioni con i compagni di cella sono una questione di sopravvivenza, per il giovanissimo protagonista del terzo racconto il riconoscimento del bisogno e la conseguente scelta di imparare ad andare in bicicletta sono presentati con piena consapevolezza, come il passaggio volontario da uno stadio evolutivo a quello successivo. 


“Dentro non è un libro autobiografico. Non parla della mia vita, ma della vita” è l’ambiziosa epigrafe che troviamo sul sito dell’autore. 
Immagino che in effetti l’intento di Bonvissuto fosse proprio quello di dire qualcosa sulla condizione umana, sempre in bilico tra un mondo sentito come “altro” e una realtà più piccola, costruita e conquistata con fatica, in cui l’uomo costruisce ripari temporanei.
L’impressione però è che la volontà di dimostrare questo assunto vada un po’ a scapito della naturalezza del racconto. Prova ne siano le continue sentenze che punteggiano la narrazione e che diventano davvero insistenti in Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta (“da vicino tutto è solo quello che è, e cioè la somma di quello che vediamo[…].”; “perché è solo il vento a cambiare le cose, sennò queste, da sole, non cambiano mai […]; “forse perché tutto quello che appartiene al passato sta a un livello più basso rispetto alla superficie, si trova nelle buche […]”; etc.).

Insomma, l’autore è senz’altro in grado di descrivere con lucidità temi e momenti delicati, di costruire immagini potenti ed efficaci ("il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto"). Tuttavia, al di là delle frasi a effetto, si respira tra le pagine l’urgenza di dimostrare una tesi, che penalizza la piacevolezza e la credibilità della narrazione. Peccato.

giovedì 29 gennaio 2015

Film #17: American Sniper

American Sniper (Clint Eastwood) è tratto dall'autobiografia di Chris Kyle (Bradley Cooper), il più grande cecchino della storia degli Stati Uniti d'America.

La vicenda è incentrata sulla figura di questo infallibile e quasi leggendario cecchino americano e sullo scontro a distanza con la sua controparte irachena. Questo dualismo diventa quasi un duello epico capace di decidere l'esito dell'intera guerra.

Il film è caratterizzato da un'alternanza tra scene belliche e scene di vita familiare; tra il fronte iracheno, dove il soldato Kyle diventa un eroe, e l'America dove la guerra sembra non esistere. In Iraq Kyle è un eroe, in America è un emarginato, perchè incapace di tornare veramente a casa, di uscire dalla guerra. Guerra che è un terribile strumento per difendere i propri cari e il proprio paese. Guerra che entra dentro i soldati segnandone per sempre il corpo e la mente.

Eastwood racconta la vita di questo eroe americano in modo estremamente essenziale, senza arricchire la vicenda di inutili fronzoli retorici.

Il più grande merito del regista è però quello di raccontare una storia difficile e impegnata senza imporre il suo punto di vista. Niente è bianco, niente è nero.

American Sniper è una storia fortemente americana, che noi non possiamo comprendere pienamente, ma solo osservare da fuori. Forse per questo lo spettatore italiano non viene completamente coinvolto dal punto di vista emotivo. Nonostante ciò, finito il film, rimarrete in silenzio a veder scorrere i titoli di coda e, sempre in silenzio, vi alzerete dalla poltroncina e uscirete dalla sala. Solo fuori, all'aria aperta, potrete iniziare a respirare.