sabato 29 dicembre 2012

Recensione #30: La briscola in cinque


Il libro giusto al momento giusto

A volte capita di incontrare il libro giusto al momento giusto.
Non è questione di capolavori, e neanche di fiuto, ma semplicemente di banali coincidenze: quando inizi a leggerlo, capisci che è esattamente quello di cui avevi voglia. E te lo divori in un pomeriggio, come quando eri piccola, a dispetto di tutte le cose che ti eri ripromessa di fare in questi giorni letargici e teoricamente proficui tra Natale e Capodanno.
La briscola in cinque è stato esattamente questo: il libro giusto al momento giusto, capitato come sempre tra le mie mani un po’ per caso.
Come dicevo, non ho intenzione di sostenere che sia un capolavoro: troppi piccoli luoghi comuni da giallo all’italiana lo rendono più rassicurante che travolgente. Però posso affermare senza vergogna che questo libretto ha allietato la mia immaginazione per un paio di pomeriggi.

In una immaginaria quanto tipica località marittima del livornese, un giovane matematico gestisce un bar frequentato da frotte di giovani alla moda, ma soprattutto da una quadriglia di pettegoli vecchietti. Nulla può scuotere la routine estiva di questo luogo, nemmeno il ritrovamento del cadavere di una diciannovenne in un cassonetto: tutto continua a scorrere come prima, semplicemente adesso la gente ha qualcosa di cui parlare. La classica incompetenza della Polizia e il ruolo nevralgico dei bar nel tessuto sociale italiano eleggono automaticamente il brillante ristoratore a investigatore d’eccezione, così, come spesso accade, le indagini si alternano a focacce e cappuccini, e gli snodi della trama sono sostenuti dal pettegolezzo di paese. Massimo (il barista) è, prevedibilmente, un burbero sensibile ferito da una donna. Insomma, una vera infilata di luoghi comuni; che però, occorre ripeterlo, è in grado di intrattenere piacevolmente il lettore.

Innanzitutto, perché il mistero non si esaurisce nel classico motivo alla Don Matteo in cui il primo indiziato invariabilmente viene arrestato prima del tempo e in extremis scagionato dall’eroe. In secondo luogo perché l’affresco italiano che ne emerge, in cui vecchietti in ciabatte commentano bofonchiando i traffici di droga in discoteca, è davvero godibile. E infine perché Malvaldi sa costruire una storia e sa scriverla. Giusta dose di ironia, piacevoli riferimenti colti; qualche sbavatura nel linguaggio giovanile (non è credibile che un diciottenne ubriaco senta il bisogno di “urinare”), ma complessivamente niente di grave. Unica forzatura, a mio parere, l’analogia del mistero con il gioco di carte… Ma bisognava pur trovare una nota per distinguere la serie dei romanzi sui vecchietti dalle altre. Insomma, debolezze trascurabili.
Sicuramente non alta letteratura, ma -perché no?- il libro giusto tra Natale e Capodanno.

mercoledì 26 dicembre 2012

Recensione #29: Portugal


Portogallo dell'anima

Come promesso ai miei fedeli lettori, e soprattutto a me stessa, approfitto della pausa natalizia per mettermi in pari con le recensioni.
Comincerò dalla fine, che mi viene più facile. Poche ore fa ho finito di leggere Portugal, il grafic novel autobiografico vincitore del premio FNAC 2012 al festival di Angoulême, che ha consacrato il talento di Cyril Pedrosa.

La premessa doverosa è che io non sono una da fumetti. Non tanto per pregiudizi radical chic, quanto piuttosto per un difetto strutturale di lettura: il mio occhio impaziente si rifiuta di soffermarsi sulle illustrazioni. Divora le didascalie, cercando di farsele bastare, pur di arrivare il prima possibile a sapere come va a finire. Questo chiaramente non mi permette di apprezzare la qualità delle immagini.
Perciò, nonostante tra i miei amici figurino alcuni autorevoli intenditori, difficilmente sul mio comodino si posano opere illustrate. Stavolta, però, è diverso.

Qualche mese fa, in occasione di Bookcity (l’ennesima deludente manifestazione milanese dedicata all’editoria), sono andata con Tita e Mari (una degli autorevoli intenditori di fumetti, tiene un blog che si chiama Di fumo e d'inchiostro) a sentire una presentazione di Bao Publishing. Nel corso del piacevole e meritatamente autocelebrativo sproloquio dei fondatori, Caterina Marietti ha raccontato la storia del suo amore viscerale per un’opera impegnativa e avvincente, su cui aveva scommesso parecchio: Portugal. L’aria sognante del protagonista in copertina mi ha conquistata in tempo zero.
Così, quando ieri, la sempre cara e attenta Tita mi ha regalato questo librone, sono stata contentissima: appena arrivata a casa, dimentica dell’indigestione natalizia, mi sono messa a letto e ho cominciato a leggere.
Oggi è Santo Stefano. Il librone è chiuso di fianco a me sul letto, e io sono gonfia di nostalgia, come se fossi di ritorno da un viaggio romantico per mezza Europa.


In effetti, Portugal potrebbe essere definito un romanzo di formazione, e quindi, in un certo senso, un viaggio: Simon, il protagonista/narratore, è uno scrittore fallito, inetto e insopportabile, in piena crisi esistenziale e creativa, che comincia a interrogarsi sulla storia della sua famiglia, sottilmente in bilico tra Francia e Portogallo, e soprattutto tra legami confusi, sepolti tra ricordi, silenzi e incomprensioni. Detta così, potrebbe sembrare la traccia di un qualsiasi noioso romanzo ottocentesco, ma la verità è che Portugal  è molto di più. In questo caso, infatti, la scelta del mezzo è davvero vincente. Non solo grazie alle illustrazioni splendide, ma soprattutto perché la modalità di racconto è allo stesso tempo delicata ed efficace. Il narratore non perde tempo a spiegare o collegare i fatti: semplicemente, racconta, procedendo a salti, e confidando nelle immagini. In compenso si serve di alcuni strumenti (il colore dei balloon cambia a seconda della provenienza linguistica dei personaggi, il fondale delle vignette varia con l’ora del giorno e con il tipo di narrazione, per cui, per esempio, le parti più oniriche sono su fondo azzurro) che aiutano in lettore a orientarsi. L’effetto è davvero suggestivo: si ha l’impressione non di una narrazione organica, ma di un vero e proprio viaggio nella mente del protagonista.


Prevedibilmente, ciò che Simon scopre, tra le pieghe della sua memoria e i resoconti smangiucchiati di suo padre e dei suoi zii, riuniti dopo tanti anni per il matrimonio di una cugina, è il Portogallo.
Un Portogallo che sembra davvero un luogo dell’anima, colorato e decadente come un ricordo. Un luogo in cui rimanere, e da cui, forse, ricominciare.
Dopo aver magistralmente ripercorso a ritroso la storia di tre generazioni, il romanzo si conclude. Al lettore rimangono in eredità le impressioni sfumate della narrazione e, soprattutto, la voglia di partire.

venerdì 21 dicembre 2012

Film #7: Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato


Nel capitolo della trilogia basata sull’omonimo romanzo di J.R.R. Tolkien lo stregone Gandalf propone  lo hobbit Bilbo Baggins come quattordicesimo membro di una spedizione di nani. L’impresa ha come obiettivo la  riconquista dell’antico regno nanico di Erebor nei meandri della montagna solitaria, dove ora regna il temibile drago Smaug.
Prima di giungere presso la montagna Bilbo e i suoi compagni dovranno però affrontare una serie di avventure con troll, orchi, goblin, lupi e l’inquietante Gollum.

In Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato c’è tutto quello che avviene nel libro da cui è tratto, e anche di più! Spesso, infatti, il ritmo della narrazione è interrotto da lunghe sequenze in cui vengono spiegati antefatti e cause degli eventi. Queste scene risultano però poco comprensibili a coloro che non sono tecnici del mondo di Tolkien e per nulla chiarificatrici.
Un primo difetto di questo film è quindi quello di essere destinato ad un pubblico “tecnico”. A supporto della mia tesi riporto un commento sentito sul tram da una ragazza che parlava con un’amica: “Cioè, è un film troppo da nerd”. Infatti il film risulta troppo legato alla mitologia tolkeniana in generale e alla precedente trilogia de Il signore degli anelli in particolare.

Un viaggio inaspettato manca inoltre del ritmo incalzante di cui necessita questo genere di film. Questo difetto, secondo me, è dovuto all’eccessiva fedeltà al testo da cui è tratto: tutto ciò che è narrato da Tolkien è riportato pari pari nel film. Questo fa si che le scene che dovrebbero essere leggere risultano noiose e lente, mentre quelle d’azione abbiano talvolta un che di infantile e goffo.
Penso si sia capito che non condivido la scelta di realizzare tre lungometraggi per rappresentare un unico libro. Trasportare dalla carta allo schermo non può voler dire riportare in immagini tutto ciò che è scritto nel libro, molto va tolto, qualcosa aggiunto, poco cambiato, l’importante è che si rispettino le intenzioni dello scrittore. 
Ed è forse la fedeltà ideologica il più grande merito di questo film, che, soprattutto nei suoi protagonisti (Bilbo, Gandalf e Thorin), interpreta perfettamente lo spirito de Lo Hobbit, che può essere definito come una favola epica.
Un plauso particolare va a Martin Freeman che interpreta magnificamente un Bilbo Baggins pigro ed allo stesso tempo coraggioso, proprio come è descritto da Tolkien.

Ho la speranza e la convinzione che i successivi episodi di questa trilogia, ed in particolar modo il terzo, saranno molto più convincenti in termini di ritmo e di fruibilità, perché la seconda parte del libro è sicuramente più cinematografica.

Una piccola nota finale per citare il bellissimo brano della colonna sonora: Song of the lonely mountain.

martedì 4 dicembre 2012

Film #6: Argo

1979. Sei funzionari dell’ambasciata americana a Teheran fuggono durante l’attacco all’edificio portato da una folla di rivoltosi. Gli evasi riescono a rifugiarsi nella casa dell’ambasciatore canadese, dalla quale, però,non possono uscire per non essere riconosciuti e quindi arrestati come spie dalla polizia dell’Ayatollah Khomeini.
L’esfiltratore (curioso termine per indicare chi cerca di liberare gli ostaggi) della CIA Tony Mendez (Ben Affleck) volerà a Teheran per aiutarli a fuggire. Per eludere i pressanti controlli della polizia iraniana i sei fuggitivi e l’agente segreto si fingeranno una troupe cinematografica intenzionata a girare un film di fantascienza ambientato nei paesaggi mediorientali di Teheran.
La vicenda, che ha dell’incredibile, è invece basata su una storia vera.

Questo è "Argo", un film che si esaurisce completamente nella sua trama. I personaggi sono infatti appena accennati e lo stesso protagonista non manifesta quasi mai le sue emozioni. Anche le vicende storiche sono presentate come verità assolute, e così pure, il contesto sociale iraniano, che è dipinto in bianchi e neri, senza sfumature.
Una persona che conosce bene quelle terre mi ha detto una volta: “In Iran niente è come sembra”. Questo aspetto non è minimamente evidenziato in Argo, dove invece tutto è come sembra.

Tutto ciò, però, non è, a mio avviso, un difetto, ma anzi è funzionale all'obiettivo del regista (Ben Affleck stesso), che non vuole portare avanti un’indagine storica, né esplorare i sentimenti dei protagonisti, ma soltanto raccontare una storia vera e avvincente, nel modo più appassionante possibile. Devo dire che riesce perfettamente nel suo intento.
Il risultato è un puro concentrato di emozioni e, nella seconda parte in particolare, si rimane per lungo tempo con il fiato sospeso.

Tensione a non finire, un pizzico di ironia e critica sociale (gli Stati Uniti e il mondo del cinema non vengono dipinti in modo lusinghiero), un cucchiaio di originalità (gli agenti della CIA sono i buoni) e una durata perfetta (120 min.) è la ricetta di questo film squisito che divorerete con gli occhi.

Argo è veramente il film dell’anno, per ora. Un film che non vi farà riflettere, perché non ne avrete il tempo.