lunedì 14 aprile 2014

Recensione #51: Sette anni in Tibet

Un bel documentario (NON un bel film)


O meglio: se volete anche parliamo anche del film, ma – a parte per Brad Pitt, che però a sto giro è decisamente troppo biondo anche per una superfan come me - davvero non ne vale la pena.

Ho letto Sette anni in Tibet per accontentare il mio amico Della, al quale per il suo compleanno avevo propinato nientemeno che le quasi mille pagine di Shantaram. Non so se per vendetta o per sincero interesse per la mia opinione letteraria (credo la prima, ma non si sa mai), qualche mese fa mi ha messo in mano questo. Questa sì che è un'avventura incredibile in Asia. – mi ha detto, sottintendendo che il mio amato Shantaram fosse un ammasso di fandonie – Però non ti aspettare un romanzo.”

In effetti, fin dalla premessa del libro, Heinrich Harrer ci tiene a sottolineare che “siccome non ha alcuna esperienza di scrittore, si limiterà a esporre i fatti”. Come dire: “se il risultato è noiosissimo, non prendetevela con me, io vi avevo avvisato”. O forse: “questa storia è talmente incredibile che per appassionare i lettori non serviranno i soliti artifici retorici degli scrittori, basteranno i fatti.” Che di per sé è un'affermazione non troppo lusinghiera per la categoria dei narratori, ma che d'altro canto dice sicuramente alcune verità su quest'opera.

All'inizio del 1939, Heinrich Harrer, ex campione del mondo di sci e conquistatore di numerose vette inviolate, tra cui l'Eiger, viene scelto per partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Internato in un campo di prigionia poco dopo lo scoppio della  guerra, tenta più volte la fuga, rifugiandosi, con incredibili peripezie, in Tibet. Qui, superata la diffidenza iniziale della popolazione, entra in perfetta sintonia con la cultura tibetana, arrivando a stringere amicizia con il Dalai Lama.

Direi che l'opera si può dividere orientativamente in due parti: nella prima, il protagonista intraprende un incredibile viaggio per raggiungere Lhasa, la città sacra del Tibet. Lo stile narrativo piatto e asciutto, quasi da documentario, è funzionale alla narrazione, il ritmo si mantiene serrato, il lettore incollato alla pagina.
I problemi arrivano nella seconda parte. Una volta arrivato a Lhasa, il protagonista/narratore indugia nel descrivere usi e costumi tibetani, senza però riuscire a trasmettere al lettore la profondità della sua esperienza. Di fronte al resoconto di Harrer, viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio scrivere un romanzo, invece che una cronaca... forse un vero scrittore sarebbe riuscito a mantenere la verità dei dettagli culturali interessantissimi sul Tibet alla vigilia dell'invasione cinese, esprimendo anche l'emozione dell'incontro con una civiltà ancora  ancora perfettamente incontaminata dal mondo esterno.

Non so, forse sono una vittima degli anni Novanta, e la leggenda di Brad Pitt al cospetto del Dalai Lama bambino mi aveva riempito di aspettative quasi mistiche su quest'opera. Di fatto, però, ho l'impressione di aver visto un bel documentario: interessante, ma freddo. Non mi sembra di aver già viaggiato, come tante volte mi succede con i bei romanzi... al contrario, però - e sospetto che questo fosse lo scopo del mio amico Della - ho tantissima voglia di partire :)