martedì 31 luglio 2012

Incursioni musicali: episodio #9


Esistono tre tipi di cantanti:
  1.  I saltimbanchi del palcoscenico: dotati di grande carisma, sono in grado di far ballare e cantare migliaia di persone con una facilità invidiabile; saprebbero costruire uno spettacolo divertente e convincente anche solo proponendo delle variazioni sul tema della “bella lavanderina”.
  2. I menestrelli: si distinguono per purezza del suono e della voce, profondità dei testi e originalità della melodia (in realtà, difficilmente hanno tutte queste doti, ma, vi assicuro, per fare un grande album ne basta una). Quelli di cui riascolti ogni traccia tre - quattro volte di seguito alla ricerca di nuove sfumature, inflessioni, altri significati. Perfezionisti dello studio, insomma.
  3.  I re Artù, i fuoriclasse; quelli dell’album perfetto, del concerto indimenticabile:  Pink Floyd, Genesis, David Bowie, U2… nomi di poco valore, insomma.
Dopo il concerto al Carroponte, posso affermare con certezza che Caparezza rientra nella prima categoria!
Nonostante la mia visuale sia stata messa a dura prova  da un pilone e da una coppia di amanti di cui la donna era alta 1,80, la sua esibizione è stata davvero un gran bello spettacolo.

A metà tra un concerto e un vero e proprio show, con siparietti che in altre occasioni e in altre mani mi avrebbero infastidito, Caparezza ha dato davvero il meglio di sé. Il Carroponte, straripante, cantava, urlava, saltava, danzava come in nessun altro concerto a cui sono andata.
E anche se queste sono le occasioni in cui mi ricordo di non avere più vent’anni (non che a quei tempi il fisico mi venisse maggiormente in soccorso), la pizzica di Vieni a ballare in Puglia ha dato nuova dignità al mio corpo danzante: evvai, che non me la cavo così male!

Poi, la sopresa.  Il buon Caparezza fa partire un arpeggio.... già sentito... certo è Confessioni di un maladrino! Caparezza ha campionato l'intro, ha ripreso parte del testo e ne ha fatto La fitta sassaiola dell'ingiuria (come più tardi scoprì).


Amo Confessioni di un maladrino, eppure non la ascolto da anni. Forse addirittura dalla volta in cui andai al concerto di Branduardi, che, con i suoi costanti richiami al mondo medievale nella lievità del testo e nella musica essenziale e ricercata allo stesso tempo, rientra di sicuro nella categoria dei cantastorie. Per comporre questa canzone, per esempio, ha messo in musica il testo di una poesia di Esenin:  Confessioni di un teppista, e ne ha fatto uno dei suoi capolavori.


Mi ritrovo così a ringraziare Caparezza, non solo per il divertimento che ha regalato a me e ai miei compagni (veramente speciali) di concerto, ma anche per aver riportato a galla un file sepolto da troppo tempo nella mia libreria musicale.

Così, nei giorni successivi al concerto, ho alternato il rap irriverente, originale ed eretico (per citare il suo ultimo album) del capellone molfettese alle ballate fiabesche del menestrello lombardo; ho deciso che li amo entrambi.

Soundtrack: "La fitta sassaiola dell'ingiuria", ?!, 2000
                   "Confessioni di un malandrino", La luna,1975

lunedì 30 luglio 2012

London Eye: Giorno 4


Bilanci

Una delle cose che mi ha colpito di più di Londra sono i giardini. Lo so, lo dicono tutti, ma è proprio vero: è incredibile la pace che si respira nei fazzoletti verdi di questa metropoli.

Dopo svariate ore e infinite meraviglie al British Museum (una su tutte, i bassorilievi che rappresentano la caccia ai leoni degli Assiri), e dopo una pausa pranzo a base di Fish&Chips, Jack potato e birra nel pub di fronte al museo, abbiamo bisogno di riposo. E dopo svariati tentativi fallimentari, perché a Londra alcuni giardini sono inspiegabilmente privati (Notting Hill docet, avremmo dovuto pensarci), approdiamo finalmente a Russel Square, e ci godiamo la prima vera pausa di questi giorni di marcia.

È tempo di bilanci.
A detta di tutti quelli che abbiamo interpellato, in questi pochi giorni abbiamo visitato tutte le attrazioni imperdibili della città. Eppure non possiamo dire di esserci fatte un’idea precisa.
Gli unici londinesi che abbiamo visto erano sul treno da e per Kingsgton (una menzione speciale va alla cicciona seminuda con giarrettiera tatuata sulla coscia, incontrata l’ultimo giorno… era bellissima, sul serio); come dire che gli autoctoni si guardano bene dall’abitare in centro. Sempre che di centro si possa parlare… E allora? Ci viene da chiederci. Come si fa a cogliere lo spirito di una città che cambia radicalmente a ogni fermata della metro?
Forse è proprio questo il punto, forse erano le nostre aspettative ad essere sbagliate. Cercare uno spirito unitario, un’anima, in un posto come questo, forse è stata una pretesa inutile. Magari invece bisogna prendere Londra per quello che è: come un crocevia, un centro di influenza, un brulichio di occasioni. Un posto in cui, davvero, chiunque può fare qualsiasi cosa.

Una volta capito questo, cioè capito che non ci siamo perse nessun pezzo, che abbiamo visto quello che c’era da vedere, e capito quello che c’era da capire (insomma, come direbbe mio padre, una volta compiuto il nostro dovere), improvvisamente ci rilassiamo. E ci godiamo la mente piena di tutte le cose belle che abbiamo visto, quasi senza accorgercene: i comignoli grigi contro il cielo, i palazzi di vetro che riflettono le nuvole. Il fiume scintillante nel tardo pomeriggio, l’aria limpida, le finestre bianche delle case di mattoni. La calma dei giardini.
Forse siamo pronte per tornare a casa.
Prima di prendere il treno i concediamo un ultimo romantico giro in autobus… Ovviamente è un pessima idea, perché ci intasiamo nel traffico delle sei di sera della settimana di inizio Olimpiadi. Un attimo prima di scendere e proseguire a piedi imprecando, però, ci lasciamo sorprendere dal Big Ben nella luce del crepuscolo. Sarà anche un simbolo londinese infestato dai turisti, però è proprio bello.

Soundtrack

domenica 29 luglio 2012

London Eye: Giorno 3


Una domenica a piedi

Finalmente l’estate è arrivata anche a Londra. Stamattina il cielo è di un azzurro splendido, e il treno per Waterloo è gremito di rumorose famigliole in tipico atteggiamento da escursione domenicale.
Anche noi abbiamo in programma un bel giro a piedi e siamo impazienti di cominciare.
Iniziamo con una passeggiata lungo il Tamigi, da Southbank fino a Tower Bridge (agghindata in occasione delle Olimpiadi). L’aria è tersa, la vista davvero incantevole: di là dal fiume, il bianco dei palazzi classici si alterna al grigio-azzurro delle costruzioni moderne, che riflettono il cielo. Nel tragitto, incontriamo le manifestazioni creative più diverse: dal mercatino dei libri, all’uomo che scolpisce la sabbia, ai cercatori di monete… Sgomitando tra i turisti, passiamo accanto al teatro di Shakespeare, deviamo fino allo Sherd (l’ultima, avveniristica quanto affascinante creazione di Renzo Piano), e infine raggiungiamo il ponte di Tower Bridge.

Da qui (a dir la verità in autobus, ma saranno non più di tre fermate), raggiungiamo Liverpool Station: la nostra seconda tappa prevede i mercati domenicali di Spatafields e Brick Lane. Come sempre, dobbiamo destreggiarci tra i turisti (anche se, in realtà, non è sempre facilissimo distinguerli dai locali), ma l’atmosfera è piuttosto folkloristica: alle bancarelle che vendono esattamente le stesse cianfrusaglie di Portobello e Camden, si alternano stand di designer emergenti, aspiranti dj e aspiranti cuochi… Insomma, c’è un po’ di tutto, ma il clima è giovane. Una specie di gigantesca festa universitaria.

La cosa incredibile è che, ripercorrendo Brick Lane, le bancarelle degli stilisti vengono improvvisamente sostituite da ristoranti etnici. Il primo tratto della via, a quanto pare, è il centro dell’immigrazione bengalese… Ha anche un nome incredibile, Bengalatown, o qualcosa del genere. Nonostante il fascino innegabile di questa zona, siamo costrette ad andarcene: abbiamo ancora un sacco di cose da vedere oggi!
Prendiamo un autobus fino all’imponente cattedrale di St. Paul e ci concediamo una visitina all’interno (eccezionalmente, l’accesso non è a pagamento!).

Da qui, ci muoviamo solo a piedi: la City deserta offre uno spettacolo suggestivo e vagamente surreale, che culmina nell’atmosfera rarefatta dei vicoletti in pietra delle Inn’s Court di Temple.
È sorprendente come a Londra basti girare l’angolo per trovare il mondo nuovo. Fino a un attimo fa non si trovava un negozio aperto neanche a pagare, e ora siamo nel pieno della bolgia dello Strand, poi di Trafalgar Square, poi di Piccadilly Circus, e infine di Covent Garden.
Abbiamo appuntamento con Giorgio, emigrato qui da novembre. Ci porta a prendere l’aperitivo in un localino sopra la piazza, che come al solito ospita saltimbanchi e spettacoli da due soldi. A dir la verità, la terrazza è troppo gremita per vedere qualcosa, ma la luce calda del tramonto e il Blody Mary ci mettono lo stesso di buon umore.
Finalmente è ora di tornare a casa. Sul treno di ritorno, lamentandoci del male ai piedi, accerchiate da marmocchi ustionati, abbiamo finalmente la sensazione di aver respirato un po’ di vera aria di Londra.

Soundtrack

sabato 28 luglio 2012

London Eye: Giorno 2


I love shopping in Portobello

L’unica cosa che avevamo deciso prima di partire era che sabato sarebbe stata la “giornata dei mercatini”. 
Prima di cominciare la visita a Portobello Road, facciamo una sosta ad Hyde Park, per vedere il famoso Speaker’s Corner… Ma rimaniamo terribilmente deluse: a quanto pare, i declamatori del parco ci sono solo la domenica (non fatevi ingannare dagli autoctoni che affermano il contrario, le ragazze del chiosco delle bibite hanno confermato: i discorsi degli aspiranti politici sono solo la domenica). Frustrate per questo fallimento (e per il devastante odore di concime nel parco, che evidentemente stavano approntando per le Olimpiadi) risaliamo sull’autobus, alla volta del mercato del sabato mattina più famoso d’Inghilterra.

Al di là della serie infinita di bancarelle che espongono oggettistica in condizioni più o meno accettabili, davvero bella è la location. Chi ha visto “Notting Hill” sa di cosa parlo: villette colorate a schiera, giardinetti estrosi… Tutto curato nel dettaglio, senza risultare pettegolo. Sicuramente merita una visita, ma preparatevi ad affrontare la folla di turisti più agguerrita e rumorosa che abbiate mai incontrato.
In una traversina ci fermiamo ad osservare una targa commemorativa di Biko, attivo nella lotta contro l’apartheid. Procedendo per la via, la qualità delle bancarelle cala sensibilmente, fino a trasformarsi in un dedalo di banchetti di cianfrusaglie cinesi. A un bivio, meravigliosamente, ci imbattiamo in un’intera fiera del cibo etnico da asporto (kebap, falafel, panini, crepes... Tutto rigorosamente ipercalorico). Guarda caso è ora di pranzo… Una sosta è necessaria.
Dopo esserci rifocillate, ci rimettiamo in marcia. Un inconfessabile senso di colpa però (spendere un’intera giornata in mercatini, quando ci sarebbe tutta la città da visitare, ci sembra un po’ vergognoso) ci spinge a ritardare la visita a Camden Town e Camden Lock per spingerci fino alla British Library.
La biblioteca conserva alcuni documenti di rarità eccezionale (dalla Magna Charta ai testi delle canzoni di John Lennon) ed è organizzata ottimamente, con tanto di supporti tecnologici che permettono di sfogliare virtualmente le pagine dei codici… Insomma, una vera meraviglia, non solo per i bibliofili.

Il tempo di una merenda da Mac (non lo facevamo da anni, giuro) e di due fermate di metro, e siamo a Camden Town. Qui siamo quasi sicure di trovare i veri londinesi alternativi. Forse sarà un po’ pericoloso (il pomeriggio volge al termine), ma siamo pronte a correre il rischio. Usciamo dalla metro vagamente intimorite e… Anche stavolta siamo accolte solo dalla fiumana dei turisti. Per carità, un intero villaggio di bancarelle e artigiani sul fiume, nella luce calda del crepuscolo, è praticamente un sogno… Però il tipo più trasgressivo che abbiamo visto era uno che pubblicizzava un negozio di Dr. Marteen’s… Insomma, dove sono i punk degli anni ’80, i disadattati, i drogati? E soprattutto: dove sono i londinesi?

P.S. Per consolarsi, vedendo i prezzi stracciati a cui vengono svenduti, Petro ha finalmente deciso di collezionare vinili. Se ne avete da vendere, contattatela!


Soundtrack


venerdì 27 luglio 2012

London Eye: Giorno 1


Turismo da manuale

Ogni città ha dei simboli, delle tappe obbligate. A Parigi, la Tour Eiffel e Notre Dame; a Roma, S. Pietro e il Colosseo; a Londra, il Big Ben e Westminster.
Questi monumenti, per me, sono come un tributo da pagare alla città. Qualcosa che faccio più per dovere che per voglia. Non che non siano belli, per carità. È solo che, a meno di visitarli nel cuore della notte, tendenzialmente sono la patria del turismo selvaggio.
Ad ogni modo, Petro ed io siamo due ragazze precise, e non abbiamo intenzione di passare per insolventi; così, decidiamo di cominciare la nostra esperienza londinese pagando questo tributo nel tempo di una bella passeggiata in compagnia di Chiara, con sosta foto davanti a Buckingham Palace, St. James Park, Big Ben, Westminster,  London Eye... Tutto molto carino; più o meno come vedere un album di cartoline.

La situazione migliora nettamente quando, dopo una lauta merenda, entriamo alla National Gallery, che è davvero uno spettacolo. Particolarmente belle le sale dedicate all’arte italiana dell’ala Sainsbury, e quelle degli Impressionisti, come dicono tutti.
Dopo un tour rapido ma completo, in cui ci sorprendiamo per lo scarso numero di visitatori, decidiamo di muovere verso Covent Garden. Il mercato coperto ha davvero un’atmosfera magica; noi la assaporiamo consumando una paella scotta su un gradino, tra saltimbanchi e concerti improvvisati. Guardiamo due vetrine e siamo pronte a ripartire, stavolta in direzione Soho, che secondo la mia guida dovrebbe essere praticamente un covo di punk e immigrati… E invece non lo è. Forse, lo era negli anni Settanta. Ora, è solo un bel quartiere con tanti negozietti e poca pioggia. A furia di camminare, ci infogniamo nella ressa di Oxford Street, da cui riusciamo a uscire solo a bordo di un autobus salvatore in direzione Holburn.
Finalmente un po’ di pace. Finalmente qualche strada che ha l’aria di ospitare delle abitazioni, e non solo punti di ristoro e intrattenimento per turisti. Con in pancia un brownie veramente enorme, siamo finalmente pronte a tornare verso Kingston.

Sul treno stracolmo di pendolari del tramonto, penso che oggi ho visto molte cose belle, ma non mi sembra di saperne di più sulla “vera Londra”. Speriamo di sanare questa curiosità domani J

Soundtrack

giovedì 26 luglio 2012

London Eye: Giorno 0

London Eye


Ebbene sì, è successo: le nefelomanti sono andate in trasferta nella folle Londra alla vigilia delle Olimpiadi.
Di ritorno da quest’avventura, sono ansiose riportare accuratamente le loro impressioni. 

Ecco il nostro “Occhio su Londra”: un post al giorno, con tanto di foto e soundtrack.
Pronti???


P.S. L’album completo delle nostre imprese è già disponibile sulla pagina Facebook di Nefelomanzia: http://www.facebook.com/nefelomanzia


Giorno 0: Nappy Valley

Su Londra si sentono dire tante cose. Per prima cosa, tutti vogliono viverci. Tutti trovano lavoro, e trovano il loro posto nel mondo. A Londra, chiunque può fare qualunque cosa. A Londra fioriscono i punk, gli alcolizzati sono a ogni angolo; Londra è la città dei Beatles, della Regina, dei tabloids scandalistici… E soprattutto, oggi, è la città delle Olimpiadi.

Per noi, non è facile accordare le aspettative: Petro è già venuta due volte e, grazie alla sua proverbiale efficienza turistica, ha visto tutto il vedibile.
Io, invece, non ci sono mai stata, ma, in compenso, sono carica di ricordi racconti e consigli di conoscenti, parenti e amici.
Sappiamo per certo soltanto che troveremo la città più intasata che mai, causa Olimpiadi, e che probabilmente passeremo metà delle nostre giornate sui mezzi pubblici, dal momento che alloggiamo a Kingston, zona 6. Un numero che ti fa venire la pelle d’oca, soprattutto quando scopri quanto costa il giornaliero per il centro…

In effetti arrivare a Kingston dall’aeroporto di Stansed è un’operazione non da poco, un viaggio da più di due ore.
Ma devo dire che all’arrivo rimaniamo positivamente colpite: davanti a noi c’è un ridente quartiere residenziale, tranquillo ma anche comodo, dotato di tutti i servizi principali, e di un centro curato in cui passeggiare al pomeriggio.
La nostra sistemazione, poi, casa di Chiara (cugina di Petro) e Richard (suo marito), che tra l’altro ringraziamo ancora per l’ospitalità, è davvero carinissima: è proprio la tipica casetta inglese, con moquette e porte in legno (e drammaticamente senza tapparelle, ma affronteremo questa tragica realtà solo domattina)… Insomma, una sistemazione ideale.

Unico inconveniente: Kingston è soprannominata “Nappy valley” (= la Valle dei pannolini). Praticamente un asilo a cielo aperto.
Speriamo bene…!


Soundtrack:


mercoledì 18 luglio 2012

Film #4: Margin Call

Qualità segreta

Una mega e non meglio precisata società che opera nel ramo della finanza più spinta rischia un clamoroso fallimento, perché i prodotti che compra e vende stanno per perdere tutto il loro valore.
L’unica soluzione è vendere tutto prima che si verifichi la catastrofe degli ignari acquirenti.
La scelta è fra fallire e far crollare i mercati, e salvarsi e  far crollare i mercati.
Tutto ciò fornisce lo spunto per una potente critica agli uomini moderni, al mondo della finanza, alla società capitalistica e alla società in generale.
Questo, a grandi linee, è "Margin call". Anche se vorrei scriverne molto di più, perché ogni frase e ogni gesto dei protagonisti dovrebbe dal luogo a discussioni e dibattiti.


In effetti, il film ha il grande merito di non fornire un’unica visione del mondo, tenta invece di presentare più punti di vista, anche quando si vede benissimo come la pensa il regista.
Per questo motivo consiglio non solo di vederlo, ma di vederlo più di una volta per comprenderlo appieno, e apprezzarne tutti gli aspetti.
Purtroppo però, a Milano, "Margin call" ormai viene proiettato solo al Plinius (poltroncine scomodissime) e nella sala suite dell’Odeon (nuova diavoleria edonistica da 20 euro a persona).


E a proposito: conoscevate questo film? Sapevate che  vanta un  cast d’eccezione (Kevin Spacey, Demi Moore, Jeremy Irons, Stanley Tucci)? Perché un prodotto di qualità così alta non è stato minimamente pubblicizzato? Perchè è stato proiettato in pochissime sale?

Mi sa che tutte queste domande rimarranno senza risposta.

Recensione #17: Almost Blue


Seconda possibilità a Lucarelli

Ho mantenuto la promessa. Ho approfondito la conoscenza con Lucarelli. Devo dire che sono piuttosto fiera di me, perché, per una volta, ho cercato di essere vagamente accurata: sono andata a cercare le puntate dei suoi show in streaming, ho guardato il suo sito, ho letto Almost Blue, il suo libro più noto, e ho visto il film che ne è stato tratto.
Ora è tempo di tirare qualche somma.
Sia dalle trasmissioni che dal libro, direi che è si vede chiaramente che Lucarelli è uno che sa raccontare. Sa costruire un’aspettativa, creare un’atmosfera. Non sono cose da poco.
Nel romanzo, in particolare, alcuni aspetti sono davvero interessanti.
Per esempio, la narrazione di molte scene dal punto di vista di un cieco: il giovane Simone, che non ha idea della forma degli oggetti e dei volti, prende in prestito i colori per dare un nome ai suoni che entrano nella sua oscurità. Il risultato è originale e anche molto accurato. Sorprendenti soprattutto le descrizioni della musica. Viene da chiedersi come faccia un vedente a immedesimarsi così profondamente nella percezione di un non vedente. Tra l’altro, devo dire che questa attenzione alla dimensione uditiva era presente anche in Il lato sinistro del cuore, e già lì mi aveva colpito. Dev’essere una specie di punto forte dell’autore.

In generale, l’attenzione ai dettagli, e la descrizione acuta e immediata delle situazioni rendono efficacemente l’atmosfera noir della Bologna dei fuori sede; una Bologna di vicoli e subaffitti, feste clandestine e misteri ignorati. E la frustrazione del cocciuto ispettore Grazia Negro, abbandonata dal suo vanesio superiore a sbrogliare l’intricato caso dell’Iguana, mostruoso serial killer di studenti, che opera protetto dal tessuto indifferente della città.
La trama è accattivante, sembra un congegno perfetto di cui non puoi perderti una virgola; al Club di Lettura non riuscivamo a staccarci dalle pagine, continuavamo a formulare ipotesi su come si sarebbe potuto risolvere il mistero.
Insomma tutto funziona perfettamente. Fino alle ultime trenta pagine.
Ovviamente commentare il finale di un libro come questo sarebbe una crudeltà, e me la risparmio.
Basti dire però che, a detta di tutti i membri del Club, Almost Blue “non sarà certo ricordato per il finale”. Ma non riuscire a soddisfare le aspettative che si sono create a me sembra un limite abbastanza grosso, soprattutto in un giallo.
Devo dirlo, non so se darò a Lucarelli una terza occasione di conquistarmi.

Un’ultima parola sui discutibili tentativi di stupire di Alex Infascelli nella versione cinematografica (che tra l’altro gli hanno fruttato niente meno che un Ciack d’Oro, un David  di Donatello e un Nastro d’Argento). Oltre a uno smaccato desiderio di impressionare lo spettatore, devo dire che non ho visto molto. Attori mediocri, sceneggiatura debole… Senza aver letto il libro, credo che della trama avrei capito poco o niente.
Insomma, anche stavolta, è il caso di dire: “meglio il libro”.


martedì 17 luglio 2012

Recensione #16: Il grande ritratto


Sorpresa buzzatiana

Quando Latti mi ha detto di aver comprato un romanzo di Buzzati che non conoscevo, la mia autostima ha vacillato. Buzzati è uno dei miei grandi amori, ho anche scritto la tesi triennale su di lui.
Anche partendo dal presupposto che, come dicono tutti, il Buzzati migliore è quello dei racconti, possibile che mi sia persa un suo romanzo? Ne ha scritti tre, lasciarsene sfuggire uno è abbastanza grave, no?
Superato lo choc della mia devastante ignoranza, ovviamente, mi sono fiondata su Il grande ritratto.

L’ho letto in fretta, ritrovando con piacere tutti i maggiori temi dell’autore.
In effetti, Il grande ritratto combina alcuni aspetti degli altri due romanzi. Non a caso, è stato scritto nel 1960, dopo Il deserto dei Tartari (1940), ma prima di Un amore (1963).
Come nel Deserto dei Tartari, infatti, troviamo un luogo avvolto nel mistero, a cui è legato il destino dell’uomo; e come nel Deserto dei Tartari c’è l’attesa, il desiderio, nei protagonisti e nei lettori, di svelare il mistero, che poi è sempre il mistero dell’uomo; come in Un amore, invece, il protagonista è oppresso dall’amore per una donna capricciosa e volubile; anche qui, nella relazione di coppia, l’altro sembra rimanere sempre inafferrabile.
Ritrovare tutto questo è stata proprio una bella sorpresa.

Detto ciò, senza volere giustificare in alcun modo le mie lacune, ci sono dei motivi per cui Il grande ritratto è rimasto quasi sconosciuto al grande pubblico.
Il problema è, sostanzialmente, la debolezza della trama. Il libro è diviso in due parti: nella prima, al professor Ermanno Ismani (un tipo timoroso ma competente e leale) viene ordinato di partire alla volta una località ignota, per dedicarsi a un progetto misterioso ma cruciale per il suo Paese e per il mondo intero. Questa sezione è molto vicina al Deserto dei Tartari: predominano il tema dell’attesa e l’atmosfera di mistero, quasi da romanzo giallo.
Nella seconda parte, le cose cambiano completamente: l’attenzione si sposta su Endriade, luminare inventore e responsabile del progetto. Di Ismani non si sente quasi più parlare, e il sentimento dell’attesa cede il posto a una angoscia più concreta, legata ai limiti della scienza, e ai limiti dell’amore…
Il risultato è affascinante, ma molto confuso.
Tanti spunti, anche molto affascinanti. Per citarne uno, Latti ci ha visto un riferimento al Mito della Caverna... Per me è un po’ troppo, ma sicuramente il tema della conoscenza, e delle possibilità che essa dà e toglie all’uomo, è centrale.

Diciamo che è un bel modo per ritrovare Buzzati; scoprire un suo romanzo quando pensavi di sapere già tutto su di lui, è come sentire che ha ancora una storia da raccontarti. Di certo, però, non è la sua storia più riuscita.





Insomma, se dovete avvicinarvi a questo autore straordinario, leggete Il deserto dei Tartari, o, meglio ancora i racconti (La boutique del mistero sarebbe il top, ma vanno bene tutte) J

lunedì 16 luglio 2012

Recensione #15: The Help


Domestiche alla riscossa

La sera prima di partire dall’Isola d’Elba, la mamma di Fede mi ha regalato The Help: più di 500 pagine di romanzo, dentro una copertina gialla sgargiante, con scritte lilla e, sul retro, commenti entusiastici e riferimenti al film cult uscito quest’inverno.
Ho deciso di affrontarlo subito, come tutte le cose che un po’ mi spaventano. Dopo tutto, quale momento più opportuno dell’epica traversata Piombino-Milano in treno?
Devo dire però che la paura è svanita dopo aver letto le prime quattro frasi. E da allora, per cinque giorni, non c’è stato posto per nient’altro che per questa storia!
Leggere The Help è stato praticamente come vedere un film lunghissimo e appassionante. Non riuscire a staccarmi dalle pagine per un intero pomeriggio era una cosa che non mi capitava da tempo.

1962. Tutto il mondo sembra galoppare verso la modernità tranne la cittadina di Jackson, Mississipi. Qui, tra piantagioni assolate e ipocrite feste di beneficenza, bianchi e neri vivono in ambienti ancora rigidamente distinti. Ogni mattina, decine di donne di colore salgono sull’autobus, e attraversano la città per andare a lavorare al servizio di svampite signore bianche: lustrano le loro case, crescono i loro bambini, ricevendo in cambio solo disprezzo e discriminazione. In confronto a queste casalinghe pallide, imbranate e razziste, le domestiche sembrano delle forze della natura: organizzate, lavoratrici, affettuose.
E cosa succede quando una di queste padroncine, troppo bruttina e intelligente per pensare solo al matrimonio come le sue amiche, decide di affrontare la questione del razzismo e convince le domestiche a scrivere un libro per denunciare la loro condizione?
Ovviamente, qualunque cosa. Altrimenti, le 500 pagine sarebbero del tutto ingiustificate (e ingiustificabili). Certo, raccontata così, la storia sembra un trionfo di banalità. E in un certo senso è vero: nessun colpo di scena è davvero inaspettato, tutto quello che succede è in qualche modo già sentito.

È la voce di chi racconta ad essere speciale.
Tre narratori, anzi tre narratrici (due domestiche spassose e una specie di alterego dell’autrice). Tre punti di vista, tre voci appassionate e ironiche per raccontare una storia gonfia di luoghi comuni.
È una bella sfida, no? Be’, direi che è una sfida vinta. 

Solo una cosa: in questo trionfo di donne (domestiche, padrone, mogli, mamme, scrittrici...), i mariti/fidanzati ci fanno una figura piuttosto misera. Sarei curiosa di sapere se questo libro può appassionare anche i lettori uomini... Cercasi volontari!

sabato 14 luglio 2012

Recensione #14: Tutti i figli di Dio danzano


Frammenti giapponesi

Prima ancora di che finissi Facebook in the rain, Fede mi ha portato nella famosa edicola da mare a scegliere un nuovo libro. Scorrendo velocemente gli scaffali (le scottature dopo una giornata al mare mi impedivano di concentrarmi a lungo), ho pensato di fare un nuovo tentativo con Murakami (per chi se ne ricorda, di lui avevo già letto e recensito L’arte di correre, e mi ero ripromessa di conoscerlo più a fondo). Siccome però tutti i suoi romanzi mi sembravano un po’ altini per rispettare la regola numero 2 dei libri dell’estate, ho deciso di puntare sui racconti. Ultimamente, sto diventando una specie di esperta di racconti.

Così mi sono avventurata in Tutti i figli di Dio danzano.
È una raccolta di solo sei racconti, tutti piuttosto brevi; slegati, ma con alcuni punti in comune.
Per prima cosa – come saggiamente sottolinea la quarta di copertina – tutte le storie raccontano un incontro. Tutti i protagonisti (casi tipici, come la ragazza scappata di casa, il grigio impiegato di banca, il marito abbandonato, la dottoressa in menopausa…), per ragioni diverse, sono bloccati in una vita che non li soddisfa, quando, improvvisamente, incontrano qualcuno che dà una piccola scossa alla loro quotidianità.

La cosa strana è che la scossa non è risolutiva, o, se anche lo è, al lettore non è dato di saperlo. Il racconto, infatti, puntualmente, si conclude con la fine dell’incontro. Frustrante? Non direi. Per chi, come me, ama i finali aperti, questa raccolta potrebbe sembrare una manna. In realtà, però, forse non è neanche questo il punto: l’impressione è che, per una volta, il finale davvero non conti. Questi racconti non presentano il percorso di crescita dei protagonisti, ma solo la loro situazione, la loro debolezza attuale. A pensarci bene, sembra quasi che gli incontri servano, più che a dare al lettore la speranza di una soluzione, a raccontargli la fragilità del presente. Non per niente, sullo sfondo c’è il continuo riferimento al terremoto di Kobe (che, tra l’altro, è la patria dell’autore) del 1995. Cosa fa percepire all’uomo la precarietà della sua condizione più della furia imprevedibile di un terremoto? Ecco, gli incontri di questo libro sono un po’ come dei piccoli terremoti: arrivano inaspettati, smuovono, danneggiano, feriscono… e lasciano danni e macerie da raccogliere, riconsiderare e ricostruire, dopo.

Sì, dopo. In Tutti i figli di Dio danzano, infatti, non c’è nessun fremito di ottimismo buonista, nessuno di quegli slanci di ricostruzione che conosciamo da tanti film americani. Mi viene da dire che qui c’è una specie di passività orientale. Un modo di guardare alla vita, e alla felicità, che è diversissimo da quello a cui sono abituata. È forse cinico, decisamente malinconico... Forse, per gli amanti dell’azione e del lieto fine, sarà di poca soddisfazione; ma per me senza dubbio è stato interessante.
Io non sono mai stata in Oriente; il mio unico contatto con il Giappone fino a oggi veniva dai Manga letti alle medie (e non ne andavo fiera). Con questo libro, per la prima volta, ho avuto la sensazione di quanto la cultura giapponese possa essere distante dalla mia. E ne sono rimasta affascinata.
Forse non è stata la lettura più appassionante dell’anno, ma penso che ne sia valsa la pena.

 
Quanto a Murakami… credo che avrò bisogno di leggere un suo romanzo, per inquadrarlo una volta per tutte :)

giovedì 12 luglio 2012

Recensione #13: Facebook in the rain

Consigli di lettura per l'estate

Una delle cose che mi rilassa di più in vacanza è non portarmi niente da leggere. Mi piace partire senza libri in valigia, entrare in quelle librerie-edicole delle località balneari, piene di volumi economici a copertina morbida, e lasciarmi ispirare dal momento.
La verità è che raramente mi permetto di comprare a caso: la lista delle cose che vorrei/dovrei o mi hanno consigliato è talmente lunga da farmi dimenticare quasi del tutto il gusto di scegliere il prossimo libro.
Ma non sono qui per parlare del mio perverso senso del dovere.
Piuttosto, della sensazione impagabile di comprare un libro perché ti piace la copertina.
In effetti, devo dire che ho sviluppato dei criteri abbastanza precisi per la scelta dei miei libri marittimi:

- Prima regola, il libro deve essere poco impegnativo. Siamo pur sempre in vacanza, no? Non è il caso di scoppiare a piangere in spiaggia, i vicini di ombrellone non capirebbero.
- Regola numero due: scegli un libro corto. Metti che non ti piace, non vale la pena di passare una settimana agonizzando tra le pagine di un mattone noiosissimo. E a nessuno piace lasciare un libro a metà.
- Regola numero tre: scegli un libro che ti incuriosisce. Un libro di cui hai sentito parlare una volta, da un amico, o al ristorante, o che hai visto in libreria mesi fa, e poi ti sei dimenticato di comprare. Questo ti darà la sensazione di starti premiando,  e allo stesso tempo di ampliare i tuoi orizzonti.
- Quarta regola: non scegliere il libro dalla quarta di copertina. Aprilo, leggine un pezzetto. Vedi se ti piacciono le frasi. Quel riassuntino striminzito alla fine non basta, e raramente rende l’idea dello stile.

L’applicazione di queste regole porta a risultati diversi per ciascuno: a me di solito mette in mano i romanzi brevi di qualche scrittore italiano emergente. Qualcuno che ha vinto un po’ di tempo fa, e che ha continuato a scrivere, entrando a far parte della vasta rosa degli autori che ho sentito nominare ma che non ho mai letto.
Inutile dire che a volte mi va bene e a volte mi va male.
Stavolta, direi malino.

Ho letto Facebook in the rain di Paola Mastrocola, che (c.v.d.) nel 2004 ha vinto il premio Campiello con Una barca nel bosco.
Il libro ha sicuramente diversi pregi: per prima cosa, una bella copertina colorata. Per seconda, un formato tascabile, pagine opache e caratteri grandi, che lo rendono perfetto per la lettura in spiaggia. Anche lo stile è molto gradevole: è un libro che leggi in fretta e bene. I personaggi sono simpatici, parlano e pensano in modo credibile, con la voce simpatica e schietta dei borghi del centro Italia.
Il problema è che la trama non fa parte degli aspetti positivi: l’autrice si sforza di raccontare con leggerezza il dramma di una vedova che, non sapendo vivere senza suo marito, trova rifugio nel magico mondo di internet. Però non ci riesce. Al di là delle descrizioni sul funzionamento di Facebook – che sono francamente godibili – la sua ironia è stentata, e troppe volte scade in un fastidioso moralismo da professoressa. I colpi di scena sono assolutamente prevedibili, il finale di pochissima soddisfazione.
Non male per passare un’oretta al mare, ma sicuramente in libreria potevo trovare di meglio. 

lunedì 9 luglio 2012

Giorni e nuvole #8

Teresa. Le vacanze

«Tu dove vai quest’estate?»
Ah, l’odiata domanda.
Sento il rumore della bici rottame di Paolo dietro di me. Sento che accelera, cercando di raggiungermi. Sento i suoi occhi insistenti sulla schiena; so dove vuole arrivare.
Mi lascio affiancare, sorrido e prendo tempo: «Sei il quarantasettesimo che me lo chiede stasera!»
«E tu cos’hai risposto, a tutti e quarantasette?»
«Che non lo so.»

I suoi occhi ridono. Mamma, se è bello. E gentile, anche. Ci siamo incontrati per caso, al termine dell’ultimo venerdì di luglio in Colonne. L’ultimo venerdì prima che la città si svuoti. Gli esami sono finiti, di giorno fa troppo caldo per uscire, di sera la gente ha voglia di stare fuori. Ho fatto tardi senza pensarci; ho salutato seimila persone, ma sinceramente non pensavo di trovare lui.
Ha perfino insistito per accompagnarmi a casa.
Torniamo insieme, mi ha detto, è troppo tardi per farti andare da sola… Come se non sapessi che lo fa per provarci.
«Tu dove vai, invece?»
«Salento. Ma devo ancora capire con chi…»
Ti prego, non essere così patetico.
Resto zitta, guardo la strada buia. Tra un’ora sarà già giorno.
«Avevo chiesto ad Adele, ma va in Brasile due mesi...»
«E ti pareva…»
«Va be’, meglio una iperattiva come lei di quelle fighette che si fanno due settimane in albergo a pensione completa.»
«Lascia stare.»
Mi guarda interrogativo.
«Ho appena scoperto che due mie amiche fanno esattamente questa vacanza.»
«Ma va’! Ma quanti anni hanno?»
«Boh, la tua età. Magari le conosci anche. Si chiamano Marta e Laura. Marta è fidanzata con un certo Mauro…»
«Ma chi, Mauro Frani?»
«Sì, sai chi è?»
«Siamo in squadra insieme. Ma sta ancora con la stessa? Voleva lasciarla mesi fa! Da quando ha perso il lavoro deve vederla tutti i giorni e si lamenta; a quanto pare lei parla solo di vestiti.»
«Be’, quanto a stranezza, non scherza nemmeno lui. La disoccupazione gli ha fatto uno strano effetto: pare che si sia messo a fare l'investigatore.»
Mi sorride senza dire niente, mi guarda insistente come se il discorso non gli interessasse affatto. Mi chiedo se si renda conto di mettermi in imbarazzo.
Continuo a parlare: «Comunque anche secondo me dovrebbero lasciarsi. E invece se ne vanno a questa vacanzina in villaggio insieme alla coppia più vecchia del mondo.»
«Che invidia.»
«A me fanno rabbia. Dicono tanto che non hanno soldi, e poi vanno a spendere migliaia di euro per l’animazione.»
Lui ride. Bello è bello, per carità. Ma cosa ci faccio io con questo, l’ultimo venerdì di luglio? Non si comincia una storia all’inizio dell’estate, lo dicono tutti i telefilm.
La circonvallazione scorre veloce, devo decidere cosa fare prima di arrivare a casa.
«E così le amiche ti hanno abbandonato…»
Ma cosa fa, ci riprova? Non mi piace la gente che insiste. Va bene valutare l’ipotesi, va bene anche immaginare una storia estiva, ma per le vacanze insieme mi sembra davvero presto.
E poi, quest’estate la voglio passare da sola.
«Hai chiesto a Luca se viene con te? O a qualcuno della squadra…»
«Luca da quando lavora a tempo pieno non lo si vede più.»
«Peccato…»
«Quando non hanno il lavoro, si sentono inutili e vengono a piangere dagli amici; poi però, appena trovano un posto, ti mollano.»
«Non son mica tutti fortunati come te, che lavori di notte!»
«Non scherzare, io mi faccio un culo così.»
«Sì, vabbè. Ma tua sorella?»
«Cosa?»
«Ci viene in vacanza con te?»
«Mia sorella è entrata nel circolo delle coppie! Ha riscoperto il nostro vicino di casa. Che tra l’altro fa parte del club: “non ho un lavoro e mi lamento”…»
«Be’, non ti va proprio bene niente stasera!»
«Mi vai bene tu.»
«Ma ti sembra una cosa da dire? »
Paolo ride, io non so cosa fare.
«Forse sono un po’ ubriaco.»
«Già.»
Un vecchio in canottiera ci guarda dal balcone. Chissà cosa pensa di noi.
Fermiamo le bici. Siamo a casa.
Decido di non essere ambigua.
Lo guardo seria: «Paolo io vado.»
Lui sorride, con gli occhi mi chiede di ripensarci: «Non mi hai ancora detto se parti.»
«Mi sa che vado in Portogallo. Mia zia mi lascia la sua casa a Oporto per agosto.  – breve pausa – In fondo, questa è la mia ultima estate come si deve...»
Non so perché, ma sembra che mi stia giustificando.
Ma giustificando per cosa? Per voler stare via un mese, prima di diventare paranoica come le mie amiche, ossessionata dalla disoccupazione, che a ottobre inghiottirà anche me?
O forse per non voler iniziare una storia con Paolo? Non riuscirei a non coinvolgermi, e, con quella faccia, non ci riuscirebbe nemmeno lui. Ma non sarebbe la cosa giusta, anche se so che l’occasione non si ripresenterà: questa è la mia ultima estate, voglio partire leggera.
Mi dà un bacio.
«Allora ci vediamo a settembre, no?»
Non credo proprio, ma dirglielo mi sembra indelicato. Così resto zitta, ricambio il bacio.
Poi lego la bici ed entro in casa.

A settembre mi laureo, poi vedremo.

mercoledì 4 luglio 2012

Recensione #12: Durrenmatt, Racconti


Il labirinto del Male

Comincio la recensione ai Racconti di Durrenmatt con la fastidiosa sensazione di non essere all’altezza. Ma anche con l’idea che forse scrivere mi aiuterà a chiarirmi le idee.
Avevo già letto due romanzi brevi di questo autore (La Promessa e Il giudice e il suo boia) e ne ero entusiasta. Perciò, quando Latti mi ha suggerito di continuare leggere un’altra raccolta di racconti pseudo gialli (dopo quella di Lucarelli) con i suoi Racconti, mi sono detta: perché no?
Insomma, ho cominciato a leggere nella migliore disposizione di spirito. Ma la verità è che non avevo idea dell’impresa in cui mi stavo imbarcando.
Non esagero quando dico che questo è uno dei libri più inquietanti e difficili, e allo stesso tempo più stimolanti che abbia mai incontrato.

E adesso, mi piacerebbe riuscire a venirne fuori.
La raccolta comprende 25 racconti, ordinati secondo uno schema apparentemente incomprensibile. Non è un criterio cronologico, e nemmeno un criterio tematico. Non ci sono sezioni che aiutino il lettore a orientarsi. Tuttavia, leggendo, è impossibile non accorgersi che alcuni motivi ritornano.
Tre racconti (La città, Dalla annotazioni di un guardiano e La guerra invernale del Tibet), addirittura, sembrano costituire diverse elaborazioni dello stesso spunto, con interi paragrafi che ricorrono quasi esattamente. Solo che nessuno si prende la briga di spiegarlo, o anche solo di segnalarlo.

E così, il povero lettore si ritrova a scorrere le pagine a ritroso, con la spiacevole impressione di aver già letto questa storia da qualche parte, ma di non ricordare esattamente dove. E sfogliando le pagine si accorge che le somiglianze tra i testi sono molto più numerose di quelle che credeva: c’è più di un cane nero portatore di un messaggio misterioso, più di un padre crudele e assente, più di un problema con un treno, più di una notte spaventosa in un villaggio sconosciuto, più di un terzetto di vecchi malvagi…

I racconti sono collocati in uno spazio preciso (abbondano i riferimenti alla Svizzera, patria dell’autore), ma in un tempo totalmente indefinito. Di più, direi che la dimensione temporale è assolutamente distorta: alcuni racconti sono ambientati nel presente, altri in un futuro apocalittico, altri in dimensioni parallele… ma in nessuno si ha l’impressione di un tempo che scorre in avanti in modo lineare. Piuttosto, viene da pensare a una realtà bloccata, immobile. Non a caso, abbondano i riferimenti al mito.

Insomma, per molti motivi si ha la sensazione di essersi persi, e di girare intorno (da notare che uno dei racconti è dedicato proprio al Minotauro, primo abitante del primo Labirinto).
Quasi tutti i protagonisti, per esempio, sono contemporaneamente prigionieri e aguzzini. Quasi tutti finiscono per assoggettarsi ad una misteriosa quanto malvagia “Amministrazione”.
E a pensarci bene, forse proprio questo elemento fornisce la chiave di interpretazione – peraltro decisamente inquietante – dell’insieme.
Un principio ordinatore del reale esiste, ed è il Male, con cui l’uomo deve sempre fare i conti, e a cui egli sempre, più o meno consapevolmente, cede.
Il Labirinto è la realtà stessa. Ed è un Labirinto del Male.


“La nostra strada passa per questo mondo di contrattempi, e sui bordi polverosi, accanto a cartelloni che pubblicizzano le scarpe Bally, le Stude-Baker, un gelato, e alle lapidi che ricordano le vittime degli incidenti, si colgono ancora alcune storie possibili: l’umanità che traspare da una faccia dozzinale, una disdetta che assume senza volere dimensioni universali, il palesarsi di giudizi e di giustizia, forse anche di pietà, captata per caso, riflessa dal monocolo di un ubriaco.”

martedì 3 luglio 2012

Evento #3: Spiderman allo WOW


WOW per l’Uomo Ragno
(di Fede - Eupallino)

È sabato pomeriggio, fuori ci sono mille gradi. È uno di quei sabati in cui non hai voglia di fare niente che non contempli aria condizionata e divano.
Questo sabato però alle sei ti stacchi dal tuo fresco rifugio, perché finalmente vai a vedere con la tua ragazza il museo del fumetto (www.museowow.it).
Se ci non siete mai stati, andateci! Chiunque sia minimamente appassionato alla materia può trovare tutto quello che cerca, e sicuramente anche di più.

Attualmente lo spazio ospita una mostra per celebrare il cinquantenario dell’Uomo Ragno.
Sarò sincero: conosco il mondo Marvel solo attraverso i film; li ho sempre tutti apprezzati molto (ebbene sì, lo ammetto, mi è piaciuto anche Daredevil, non fatemene una colpa), ma non ho mai sentito l’esigenza di approfondire le mie conoscenze sul “cartaceo”.
L’Uomo Ragno però è diverso: dai tempi in cui mio nonno mi regalava la cassetta di “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” degli 883, suo primo e unico regalo, a quelli in cui Kirsten Dunst baciava Tobey Maguire appeso a testa in giù, l’Uomo Ragno per me è sempre stato un mito.

Ma veniamo alla visita. Ad accoglierci c’è Bebo, guida di primissima classe, nonché curatore della mostra e collaboratore del museo.
Al pian terreno, Bebo ci spiega come venivano realizzati i primi cartoni animati, e poi ci introduce ad una mostra su Aldo Di Gennaro, illustratore e fumettista bravissimo (che però ritiene di non saper disegnare).
Lungo le scale che portano al primo piano, incontriamo numerose opere d’arte dedicate al nostro eroe; tutte molto belle, ma niente in confronto a quello che ci aspetta… Finalmente cominciamo.
Il percorso è curato nei minimi particolari, organizzato in modo molto chiaro per disegnatore, per anni e per cattivi. Siamo letteralmente catapultati in un mondo rossoblu pieno di mostri, carta, gadget e zie May incredibilmente appassionanti. Una sosta per ogni vetrina, bacheca, tavola o televisore, con una rapida ma esaustiva spiegazione di tutto quello che è esposto.

Ed è così che scopriamo che la trama dell’Uomo Ragno è più intricata di quella di Beautiful, che anche dietro un fumetto vigono le severe leggi del marketing; che il costume nero non è cattivo come sembra (tra l’altro, a quanto pare, non è nemmeno un costume), che l’Uomo Ragno è un supereroe umano con dei super problemi umani; che Peter Parker probabilmente porta un po’ sfiga, e che zia May non muore mai.



Ma la vera chicca è la guida.
Capita di rado di vedere accompagnatori così appassionati; l’amore di Bebo per i fumetti in generale, e per l’Uomo Ragno in particolare, è stato capace di coinvolgerci a 360° nella Ragno story.
Sono uscito dallo Spazio Fumetto convinto di essere stato dentro 20 minuti, era passata più di un ora e mezza.

Tutto quello che avreste voluto sapere sull’Uomo Ragno e non avete mai osato chiedere.

lunedì 2 luglio 2012

Giorni e nuvole #7


Mauro. I misteri

«Scusa, devo scappare.»
Valentina mi stringe la mano in fretta, e poi sgattaiola nell’ascensore. Peccato, avrei fatto volentieri due chiacchiere. Ci incontriamo quasi tutti i giorni sul pianerottolo; ci diamo il cambio a casa di Nancy: lei insegna inglese e io italiano. Ha un’aria triste e sfuggente… Come se più di ogni altra cosa volesse essere lontanissima da qui. Come si spiega un desiderio di fuga così evidente? Direi con un trauma, da qualche parte. Magari in famiglia. Magari col padre. Un padre violento, distratto, alcolista. La prossima volta devo assolutamente controllare se ha dei lividi.
«Mauro?»
La vocina di Nancy, perplessa nel trovarmi quasi in trance davanti all’ascensore, mi riporta alla realtà. Entro nella sua casa caldissima, in cui porte e finestre restano sempre chiuse. Anche per questo deve esserci un motivo nascosto. Voglio dire, una famiglia in cui con ventotto gradi non si apre neanche una finestra (e di condizionatori, ovviamente, neanche a parlarne) ha certamente un segreto. Magari non mi hanno mai parlato del loro figlio fotofobo, che vive recluso nella stanza in fondo al corridoio… No, forse questo è troppo. Un segreto in questa famiglia c’è, ma sono quasi sicuro che sia molto meno romanzesco di così.
Nancy prende posto sulla sua seggiolina imbottita e comincia a leggere a voce alta. Incespica continuamente, ma io non la correggo; penso ad altro.

Da quando ho perso il lavoro, vedo misteri. Non li cerco, e nemmeno li risolvo; me li trovo davanti. All’inizio erano fenomeni insignificanti, come le graffette. La gente non lo sa, ma sui marciapiedi ce ne sono tantissime. Inspiegabilmente. Dopo le graffette, ho cominciato a notare segnali più gravi: il giro di usura del quartiere, quello di droga del bar sotto casa. Ci sono sempre stati, ma io me ne accorgo solo adesso.
La mia ragazza non mi crede. Dice che ho solo bisogno di indirizzare da qualche parte le energie che prima mettevo nel lavoro. Ma comincio a pensare che la mia ragazza, di me, non abbia mai capito niente.
Io non ho nessuna energia superflua da canalizzare: non sono mai stato occupato come in questi ultimi tre mesi. Anzi, tutto sommato, credo che non avere un lavoro mi faccia bene: finalmente faccio attenzione ai dettagli, finalmente posso giustamente inquietarmi per i misteri che mi circondano.

Anche perché, di cosa dovrei preoccuparmi? Con i soldi della liquidazione posso andare avanti ancora un annetto senza chiedere niente a nessuno. E poi, se mi impegnassi, credo proprio che un lavoro qualunque potrei trovarlo. In fondo, ho solo ventotto anni.
E comunque non è neanche detto che io lo cerchi, un altro lavoro. Con questi lavoretti guadagno molto più che in azienda e con molto meno sforzo. Certo, non ho la sicurezza di un posto fisso, ma in fondo a cosa mi serve? Per il momento, non ho intenzione di farmi una famiglia.
Sì, se ci penso bene, non rimpiango affatto la vita dell’ufficio. La mia ragazza sarà anche stata contenta, convinta com’era che come copy potessi dar sfogo alla mia creatività, ma la verità è che io mi sentivo in prigione. Scrivere mi piace, e penso proprio di saperlo fare. Ma pensare slogan per degli idioti dall’aria finto casual mi faceva sentire stupido.
Qui invece, tra queste mura surriscaldate, per la prima volta dopo molto tempo sento di avere nuovi stimoli. Da anni non mi confrontavo così da vicino con un’adolescente, e da anni non incontravo così tanti misteri.

Nancy ha finalmente finito di leggere. Le propongo di scrivere un riassunto del capitolo, più che altro per tenerla impegnata. Nei suoi occhi leggo la disperazione, ma è troppo mansueta per ribellarsi alla volontà del precettore; e io, del resto, sono troppo preso dal mistero per farmi impietosire. C’è qualcosa che devo scoprire, oggi. Il piano è già perfettamente architettato, non mi fermerò.
Fingendo tenerezza e compassione per il duro compito che le ho appena assegnato, mi offro di andarle a prendere del tè in cucina.
Senza aspettare la sua risposta, mi alzo ed esco dalla stanza. Percorro il corridoio pestando i piedi, anche se non serve: Lei mi  sente comunque.
In effetti, non faccio in tempo ad aprire il frigo, che mi compare alle spalle. La mamma di Nancy mi guarda in silenzio, sulla porta, stretta nel solito abitino nero elegante ma triste, da vedova.
A dir la verità non credo che suo marito sia davvero morto (ho idea che una vedova sia in qualche modo tenuta ad informare chiunque del suo stato), ma sono quasi certo che non è molto presente. Che non abita più con lei. Ma che lei lo ama ancora, di un amore silenzioso e disperato. Un amore che l’ha indotta ad abbracciare questa specie di mutismo volontario.
Faccio lezione con Nancy da più di tre settimane, e sua madre mi ha parlato solo il primo giorno, per raccontarmi la situazione scolastica di sua figlia e fissare sbrigativamente il compenso. Poi più niente.
La saluto: «Buongiorno, Signora». Lei non risponde. Fa solo un cenno impercettibile con la testa, e mi fissa, intensamente.
Non sembra uno sguardo di desiderio, anche se confesso che la cosa mi lusingherebbe. Piuttosto, è una richiesta di aiuto. Sì, ma aiuto per cosa? Come faccio ad aiutarla se non mi spiega la sua storia?
Cerco in fretta qualcosa da dire, ma ormai ho già versato il tè e preparato il vassoio. Devo tornare da Nancy, non ho nessun motivo per rimanere. Uscendo dalla stanza le passo vicinissimo, le sfioro la mano, sento che sussulta. Sono già due passi oltre quando mi richiama: «Mauro?».
Finalmente. Mi giro di scatto, pronto a cogliere la mia occasione.
«Volete anche dei biscotti?».
Rifiuto gentilmente calcando le parole, per farle capire che ho capito che stava per dire ben altro.
Torno in camera di Nancy. Domani sarò più sfacciato, domani scoprirò qualcosa.

La mia ragazza dice che di tutti questi misteri, se non altro, potrei fare un bel romanzo. Ma la mia ragazza, di me, non ha ancora capito niente.