sabato 28 aprile 2012

Incursioni musicali: episodio #6


Capita anche a voi di passare delle giornate (più delle settimane, in realtà) in cui non avete voglia di novità? In cui, al brivido del nuovo, preferite il già visto e il già sentito?
È in questo stato d’animo che ho vissuto questi ultimi giorni.
Forse per questo mi è stato difficile trovare qualcosa di interessante da raccontare nel blog!
Nessuna buona idea, insomma, nessuna illuminazione; la mia proverbiale capacità creativa era completamente svanita.

Armata di buoni propositi, mi sono chiesta come uscire da questa situazione:

Opzione 1: spezzare la catena della monotonia e fare qualcosa di stra-ordinario. Bella idea! Sarà utile sia alla mia vita sia alla mia competenza musicale. Solo che, se con la teoria me la sono sempre cavata, con la pratica ho sempre avuto qualche problema (il greco e latino mi hanno insegnato anche questo). Il mio senso di autoefficacia vacilla. Passiamo all’opzione 2.


Opzione 2: concentrarmi sulla musica e sul prossimo post (e chi la sente Giulia se non scrivo nulla???). Mi fiondo da Ricordi aspettandomi che una qualche ispirazione mi colga sulla via di…. No, niente di interessante, proviamo lungo le corsie dedicate a “cantanti italiani”, ma niente; “musicisti pop/rock”? Anche qui niente da fare. Meglio tornare a casa mia.

Proviamo allora con la variante B dell’opzione 2. Perché non riascoltare un vecchio cd, lasciato ad ammuffire nel tempo? Con la carica di Don Chisciotte mi scaglio contro la mia raccolta alla ricerca dell’Album che possa risolvere ogni mio empasse… Ma anche stavolta nessuno riesce a convincermi. Nemmeno i miei artisti preferiti (per la cronaca, Ben Harper e i Pearl Jam) riescono darmi soccorso. Non sono in sintonia nemmeno con loro, è una tragedia.

Opzione 3: non fare assolutamente nulla.
Ci sono momenti in cui è indispensabile fare, muoversi, progettare, cercare, sbattersi… ed ogni verbo che vi venga in mente che implichi un’azione impegnata e  intenzionale da parte dell’uomo per far sì che  il suo tempo assuma nuovo senso. Che fatica, però, se fosse sempre così! Io ora capisco che sono nell’altra fase, quella in cui mi posso riposare un po’, facendomi cullare da quelle poche e instabili certezze che ho, e attendere, e stare…

Come avrete capito, l’opzione 3 ha avuto la meglio.
Martedì. Serata casalinga davanti alla TV, io, Pela e il dr. House. Alla fine della puntata si ascolta  Yesterday Was Hard On All Of Us di Fink, canzone e artista a me totalmente sconosciuti.
In questi momenti di “riposo” anche i pensieri procedono più lentamente, così impiego qualche giorno per capire che avevo tra le mani una novità da esplorare.
Stasera, mentre scrivo questo post, ascolto qualche canzone di Fink e… mi piace, la sua musica si intona con me.

L’ultima opzione ha funzionato. Il post è stato scritto e ho anche scoperto un nuovo cantante! Per tutto il resto… si vedrà!


Soundtrack: 
"Yesterday Was Hard On All Of Us ", Perfect Darkness, 2011

lunedì 23 aprile 2012

Evento #1: Librocielo


L’evento del Fuori Salone

Di recente, mio fratello Latti mi ha rimproverato, perché su questo blog sto scrivendo solo di libri, mentre mi ero impegnata a relazionare il mio folto pubblico su tutti gli aspetti della mia vita culturale. Così, oggi ho deciso di provare ad accontentarlo.

Come tutti i milanesi sanno, ieri si è conclusa l’interminabile serie di eventi del Fuori Salone. Vista la mia sostanziale disoccupazione, quest’anno ho avuto il tempo di visitare qualche installazione: a parte la solita serata in Statale, comprensivo di bagno di folla e pessimo drink gratis, ho fatto un giro in Triennale, in Tortona e alla Fabbrica del Vapore. Sono contenta di aver partecipato, perché se non altro mi sono fatta un’idea di quello di cui tutti parlano, ma, devo confessare che le esposizioni mi hanno abbastanza deluso. Banalizzando, direi solo: molto fumo.

In extremis, però, ieri sera sono andata in piazza San Sepolcro, a vedere Librocielo, l’evento promosso da Cosmit presso la Biblioteca Ambrosiana, e almeno di questo sono stata soddisfatta.
Il progetto è stato ideato dall’architetto AttilioStocchi, che l’anno scorso aveva realizzato Cuorebosco in Piazza San Fedele, e propone un percorso sui temi della casa e dell’abitare nella sala Federiciana della Biblioteca.

I visitatori (a gruppi di 80, scaglionati ogni mezzora), dopo aver ascoltato una poco credibile introduzione dalla voce niente meno che del Cardinal Federigo, vengono introdotti nella sala, completamente buia. Qui, nel luogo dove in età romana si incontravano cardo e decumano, e dove il Cardinale volle edificare la sua biblioteca, i volumi dialogano dagli scaffali, descrivendo i significati e la storia delle diverse parti che compongono la domus romana. Ogni libro è simbolicamente collegato agli altri da fili di luce che si accendono in corrispondenza della sua voce.
Al termine di ogni spiegazione, i libri si spengono e tacciono; al loro 
posto, si illuminano i ritratti della collezione degli Uomini Illustri conservata nella Sala, che cantano madrigali e rivestono la funzione degli stasimi nella tragedia.

Il risultato è davvero interessante. Innanzitutto ha il merito di aprire un luogo meraviglioso al grande pubblico, sedotto dall’idea della manifestazione di design. Se posso dare il mio parere di profana, la fruizione è un po’ faticosa (ieri sera ho dovuto leggere un intero libretto di spiegazioni per capire perché la biblioteca, e la domus, e perché le luci), ma incredibilmente suggestiva. E poi il tema della casa, che è il tema dell’appartenenza a una dimensione familiare, ma anche comunitaria e cittadina, mi sembra attuale e soprattutto urgente. Sono contenta che anche il Fuori Salone, nella sua modaiola superficialità, abbia fornito un buono spunto di riflessione sulla necessità che tutti abbiamo di abitare un luogo.

Guarda tutta questa gente a cui sono appena sufficienti le case di una città sconfinata: la maggior parte di questa folla è senza patria, senza casa.
Lucio Anneo Seneca


martedì 17 aprile 2012

Incursioni musicali: episodio #5


Avete anche voi una canzone, che senza nessun preavviso e alcuna volontà, si palesa alla vostra mente ogni qual volta non sapete che parole pronunciare, a cosa pensare o cosa fare?
Una specie di “Supercalifragilisichespiralidoso” per intenderci. Il “cosa dire quando non si sa cosa dire, sperando che quel che vien detto riesca a risolvere l’empasse del momento”.  Pura magia, insomma, che ovviamente, non sortisce alcun effetto.
In queste situazioni mi capita immancabilmente di cantare While My Guitar Gently Wheesp
Perché? Non ne ho la più pallida idea.
Pela, la gatta coinquilina, me l’ha sentita cantare spesso ed in ogni tonalità e tempo possibile. E, se posso farmi un complimento, sul ritornello me la cavo proprio bene.
Ho  da sempre avuto un sentimento contrastante nei confronti del doppio album “The White Album”. Una metà dei pezzi è memorabile e l’altra metà …. Di alcune canzoni avremmo proprio fatto a meno. Cosa sia passato in testa al buon Paul quando scrisse Obladì- obladà o la modestissima Honey Pie o a John e Yoko quando elaborarono Revolution n° 9,  rimarrà un mistero.
Ma nell’altra metà dell’album ci sono tra le ballate pop più fini, intime, superficialmente semplici e profondamente ricercate  mai ascoltate prima.
Blackbird, per iniziare. Voce, chitarra e… metronomo. Se mai avrò un figlio, ho deciso, per farlo addormentare gli canterò “Blackbird singing in the dead of night, take these broken wings and learn to fly, all your life, you were only waiting for this moment to arise”.
Julia, il cui primo verso recita: “Metà di quello che dico non ha senso ma lo dico solo per giungere a te, Julia”. Conoscete parole più adatte per esprimere  quei colloqui, o meglio, soliloqui,  che un innamorato accenna nel momento in cui tenta di riconquistare l’amata?
E poi Dear Prudence, Happiness Is A Warm Gun, Martha my dear, Glass Onion, I Will, Mother Nature’s Son e…. basta così.
Inutile dirvi, che nella mia personalissima classifica dell’album, al primo posto ci sarebbe proprio While My Guitar Gently Wheeps. Sarà l’arpeggio struggente di Eric Clapton (assoldato come guest star  proprio da George Harrison, autore del brano) sarà l’immagine di una chitarra che piange dolcemente, sarà...
Sarà che spesso accade che ci leghiamo a persone, luoghi, oggetti e, perché no,  canzoni in modo del tutto misterioso. L’unica spiegazione che riesco a darmi  è che  lì, in quella relazione,  assaporiamo  briciole di pura bellezza. Ed ogni parola aggiunta a motivare quel nostro legame, finirebbe col falsificarlo e, quindi, immediatamente, abbrutirlo.
Ora, perché non mi raccontate quale è il vostro mantra musicale? 

lunedì 16 aprile 2012

Recensione # 8: Accabadora


Indagine di e su Michela Murgia, parte II

Scrivo la mia recensione su Accabadora  un giorno dopo aver finito di leggerlo, ma non so se ho fatto bene a lasciar passare questo tempo. L’ho divorato, e mi sembrava di aver bisogno di far decantare i pensieri, ma forse in queste poche ore mi sono già persa qualcosa.

La prima cosa da dire è che il libraio aveva ragione. Questo libro è davvero bello. Da tanto tempo non mi capitava di essere completamente avvinta dalla macchina narrativa un romanzo.

Ma andiamo con ordine.
Innanzitutto, la definizione: Accabadora è senza dubbio un romanzo. E, per una volta, è un romanzo che non sa di riciclato. Se per esempio lo confronto con l'Ombra del vento, di cui tanto mi sono lamentata, il fenomeno è più che evidente: dove lì c’erano una serie di ingombranti espedienti ottocenteschi (basti pensare che si tratta di un romanzo di formazione) adattati a una trama che aspirava alla modernità, qui, i meccanismi tradizionali sono ridotti al minimo. E benché, a ben guardare, anche in questo caso si parli  di amore, morte, mistero e crescita, ad emergere, con evidenza fortissima, rimangono solo una storia davvero appassionante di solitudini e compassioni, e l’atmosfera senza tempo di un mondo lontanissimo.

In effetti, Accabadora parla di questo: dei misteri affascinanti dei villaggi rurali della Sardegna, della realtà ostinata e superstiziosa di una terra quasi scomparsa e quasi sconosciuta. L’autrice è originaria di questi luoghi, e li racconta apparentemente senza filtri: utilizzando le parole, i detti, le sonorità della sua gente; restituendo al lettore una concezione della vita che respira con la terra, e che risponde ad una logica antichissima.

Se mi avessero raccontato la trama, probabilmente avrei creduto si trattasse della storia di un villaggio asfittico, che si nutre di ottuse superstizioni, deprecabili avanzi di una realtà dura a morire. Eppure, non è questo che ho pensato leggendo.
Al contrario, l’operazione della Murgia è straordinaria proprio perché rende credibile un sistema di pensiero distante anni luce dal nostro.
Come ci riesce? Operando dal di dentro. Se la voce narrante, infatti, è esterna alla storia, il punto di vista le è assolutamente interno. In pratica, chi racconta ricalca i modi di dire e di pensare dei protagonisti, dando vita ad uno stile semplice, che per certi versi mi ha ricordato addirittura Verga.
Insomma, Accabadora riesce perfettamente nell’incantesimo cui ambisce ogni romanzo: il lettore è dentro il meccanismo, si identifica, si immedesima.

Ieri pomeriggio ho chiuso il libro, e ci ho messo un po’ a recuperare la mia dimensione di moderna razionalità milanese. Sono uscita a fare una passeggiata sotto la pioggia, e mi sono accorta che mi è successa una cosa ridicola, che però mi capita solo con i buoni libri: i miei pensieri si muovevano al ritmo cantilenante dei periodi di Accabadora.

mercoledì 11 aprile 2012

Recensione # 7: Il mondo deve sapere

Indagine di e su Michela Murgia, parte I

A parlarmi per primo di Michela Murgia è stato il libraio antiquario da cui ho fatto lo stage, che ha definito Accabadora “un capolavoro”. Il suo giudizio così positivo mi ha incuriosito, ma, a dir la verità, ci vuol altro per concretizzare il mio facile entusiasmo.

Qualche mese dopo, nella libreria in cui lavoravo, un cliente è entrato chiedendo se avevamo la storia di “una sarda che ha mollato tutto ed è andata a vendere Folletti”.
Premettendo che Il mondo deve sapere  non parla di questo, devo confessare che, quando ho scoperto che l’autrice di questa incredibile storia era la stessa Murgia apprezzata dal libraio, e che l'opera in questione era la trascrizione di un blog (tema su cui sono ovviamente sensibile in questi mesi), redatto in 30 giorni di drammatico precariato (altro tema che non può lasciarmi indifferente), e che da essa era stato tratto il film Tutta la vita davanti, che non ho mai visto, ma che mi ha sempre ispirato… quando ho scoperto tutto questo, ho deciso di passare finalmente all’azione: ho proposto Il mondo deve sapere al mio Club di Lettura del martedì.

Devo dire che, con i suoi capitoli corti, l’opera si è adattata perfettamente alla fruizione corale del nostro circolo. La lettura quindi (peraltro conclusa in solitaria su un tram durante le troppo brevi vacanze pasquali), è stata piacevole, e tra l’altro ha dato avvio a una serie di amene riflessioni sulla condizione dei lavoratori nel sistema contemporaneo.

Tuttavia, credo sia giusto chiarire qualche equivoco: la Murgia non si è infiltrata nel call center di un’azienda che vende aspirapolvere (non il Folletto, ma il Kirby) per denunciare il precariato, ma perché realmente cercava un lavoro. E allo stesso tempo, per tutelare se stessa dal totale abbrutimento di questa attività, ha raccontato al mondo quello che ha visto e sentito in un mese di telefonate a casalinghe più o meno disperate. Certo, l’aspetto della critica è ben presente; ma più che contro il precariato, l’autrice si scaglia contro sistema di manipolazione e sfruttamento dei più deboli, impiegato dall’azienda verso dipendenti e clienti.
Il risultato è una denuncia davvero efficace (prova ne siano il successo del libro e del film): con ironia tagliente e onestà, la Murgia racconta la propria frustrazione nel trovarsi imprigionata in un ingranaggio perverso e soffocante.

Eppure, se posso, non sono convinta.
Il problema non è lei, che è intelligente e scrive bene, e si vede. Ma l’opera in sé, che probabilmente andava  bene come blog, ma non funziona altrettanto come romanzo. Questo libro è uno sfogo, un reportage… ma non va oltre il resoconto. Non approfondisce, e oltretutto nemmeno conclude. Non ha la costruzione né la portata dell’opera letteraria. Insomma, è interessante e anche ben scritta, ma non la definirei “un bel libro”.

Quello che ho scritto ha delle conseguenze che non sono sicura di poter affrontare: per esempio, vuol dire che da un blog ci si aspetta meno che da un libro? Non molto coerente, da parte di una che tiene un blog. Forse dipende dal fatto che i contenuti digitali sono per definizione aperti, cioè sempre in progress? Non lo so, forse devo pensarci ancora.

Tornando alla Murgia, come posso concludere, almeno temporaneamente, il mio discorso? Per ora, forse, sospendendo il giudizio. Ma sono curiosa di vedere come si comporta questa blogger pungente quando affronta un libro vero… non mi resta che andare a procurarmi Accabadora!


lunedì 9 aprile 2012

Incursioni musicali: episodio #4

Solo 5 su 31!?!

Ecco, la mia autostima ha subito un nuovo colpo. Ero convinta di avere una discreta conoscenza del panorama musicale rock-pop-blues degli ultimi 40 anni, e invece… Ho letto il saggio 31 canzoni di Nick Hornby e, dei 31 brani di cui parla lungamente, la vostra blogger musicale ne conosceva solo 5!

Dopo una rapida lettura dell’indice del libro e la conseguente depressione per le motivazioni di cui sopra, mi decido ad esplorare le ragioni per cui Hornby ha scelto proprio questi brani come i più significativi della sua vita. 

Leggo in modo famelico, più per colmare le mie lacune musicali, che per vero piacere (tra parentesi, preferisco l’Hornby romanziere a quello saggista), fino a che non arrivo al capitolo 17, che è dedicato ad A minor Incident di Badly Drawn Boy. La profonda verità del testo, e le coincidenze che racconta l’autore mi inteneriscono. Ma c’è dell’altro, e mi riguarda più da vicino.  

Hornby racconta che la scrittura del suo romanzo A boy  coincise con la diagnosi di autismo a suo figlio di appena tre anni. Di come fu faticoso lavorare, negli anni successivi, alla trasposizione del romanzo in film (About a boy) e del suo desiderio inespresso di affidarne la colonna sonora ad un certo eccentrico e affascinante cantautore inglese. Di come, sorprendentemente, i produttori del film avessero avuto la stessa idea e avessero incaricato del progetto proprio Damon Gough (in arte BDB), autore di un album innovativo come “Year of the Bewilderbeast”, vero e proprio caso discografico del 2000.

Il risultato è degno delle migliori aspettative: la colonna sonora è costruita in modo mirabile; un’opera concertistica completa, in cui i brani alludono l’uno all’altro, in un’atmosfera intima e leggera.

Tra i pezzi, spicca A minor Incident, per il calore della chitarra, per il clima dylaniano dell’armonica a bocca, ma soprattutto per il testo, l’ultimo messaggio di Fiona al figlio prima di tentare il suicidio.

Canta Damon: “Con te non passavamo mai inosservati tra la folla. E anche se ogni tanto avevi la testa in una bolla, non potrai deludermi, qualsiasi cosa tu non  faccia”…

Per un padre con un figlio le cui principali difficoltà sono comunicare e relazionarsi col mondo,  la testa in una bolla è un richiamo immediato. Eppure Damon non sapeva.

Così, mentre Nick condivide con il lettore la sua commozione e gratitudine nello scoprire un’affinità, non immaginata prima,  tra suo figlio e il protagonista del proprio romanzo e la sua meraviglia di fronte alla vicinanza creativa con Badly Drawn Boy, la mia mente mi richiama ad altre storie: sono quelle di padri e madri di ragazzi disabili (e alcuni di loro proprio autistici) che ho incontrato in tanti anni di lavoro.

Il mio pensiero va a loro, che hanno condiviso e condividono con me i momenti di sconforto e di rabbia, i sensi di colpa, la vergogna; le preoccupazioni per l’oggi e per il domani.

Il mio pensiero va ai loro sguardi di amore incondizionato verso quei figli che non li deludono mai, qualsiasi cosa non facciano e non riusciranno mai a fare.



martedì 3 aprile 2012

Recensione #6: Questa è l'acqua


Consigli per giovani laureati

 “…Il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedirvi di trascorrere la vostra comoda, agiata, rispettabile vita da adulti come morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno.”

Leggere parole come queste in una mattina di grigia nullafacenza post laurea è davvero un toccasana.
Chiudo il libro e sono grata al mio amico Take di avermelo regalato: da tempo non mi sentivo tanto toccata da una pagina, da tempo non mi commuovevo più leggendo.

Questa è l’acqua è una raccolta di sei testi di Dave Foster Wallace ancora inediti in Italia. Cinque racconti usciti in rivista, e la trascrizione del discorso tenuto dall’autore ai laureandi del Kenyion College nel maggio del 2005 (Questa è l’acqua, appunto).
È un libro pieno di aspetti positivi: per prima cosa è un libro piccolo, con una bella copertina verde, e un apparato paratestuale per una volta utile e pertinente.
Lo stile è più che convincente: visionario, sfrenato, mobile… sicuramente faticoso (ma per la mia attenzione ballerina è stato un bell’esercizio riuscire a star dietro a tutti i cambi di punto di vista e prospettiva!), ma anche incredibilmente affascinante. Direi che ha tutti i pregi dell’asciuttezza e della libertà americana, senza scadere (come troppo spesso accade) nel nonsense e nell’assurdo.

E veniamo ai contenuti: i racconti toccano temi forti come la malattia, la depressione, l’amore e la morte con la serietà e la leggerezza di chi sa esattamente di che cosa sta parlando, e non ha intenzione di piangersi addosso. In poche pagine, mi sono innamorata di Solomon Silverfish, ho avuto compassione del giovane Karrier, e del solitario abitante del Pianeta Trillafon; ho creduto all’amore in alcune delle sue forme più strazianti e grottesche; ho imparato che “la malattia è una cosa che hai, non una cosa che sei”, e ho riflettuto sulla tensione fra ordine e fluttuazione nel cosmo attraverso una strana analogia con le particelle della saliva… non male, direi.

Quanto al discorso, posso dire solo che è bellissimo: onesto, pertinente, acuto. Senza retorica, Wallace mi ha ricordato quali siano il senso e lo scopo di una formazione umanistica… forse ne avevo bisogno.

“La vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia… adesso.
Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.”