domenica 21 dicembre 2014

Recensione #56: La ferocia

La convincente logica della ferocia

Ebbene sì, sono passati quasi sei mesi. Sei mesi senza scrivere neanche una riga. A ogni nuovo volume che approdava sul mio comodino, mi dicevo: “di questo scriverò su Nefelomanzia”; ma poi, per un motivo o per l’altro, lasciavo stare. 

Poi invece, finalmente, ho incontrato un libro da consigliare a tutti. Un libro che mi ha fatto venire voglia di provare ad abbattere quello zoccolo di pigrizia e timore sapientemente costruito in questo tempo, imparando di nuovo a ordinare i pensieri sulla pagina. Quel libro è La ferocia, di Nicola Lagoia, una storia che parla di famiglia, Italia, modernità, infelicità, malattia, affetti. Un sacco di cose, tenute insieme dal solito esile scheletro del giallo investigativo.


Sulla provinciale tra Taranto e Bari, in una Puglia piagata da corruzione, burocrazia e abusi edilizi, viene ritrovato il cadavere di Clara Salvemini, figlia di un affermato palazzinaro locale. A indagare sulla sua morte, torna da Roma il tormentato fratellastro della vittima, Michele. Sotto la lente straniata del suo sguardo, la vicenda di Clara e del suo mondo riaffiorano zoppicando.
È la storia di una famiglia, con i suoi tradimenti e le sue meschinità; la storia di un uomo incapace di guardare i suoi sbagli, e dei suoi figli viziati, infelici, eccellenti, belli, malati, soli; la storia di due fratelli, troppo legati e sofferenti per stare vicini; la storia di un’impresa edile, che prospera a forza di abusi e cene con giudici e funzionari; la storia di una terra brulicante di creature crudeli e cieche, predatrici o prede incapaci di pietà.

Come fanno tutti questi elementi a stare insieme, senza trasformarsi nell’ennesima pretenziosa accozzaglia con ambizioni di denuncia sociale? In effetti, l’impressione, leggendo, è di trovarsi davanti a un affresco coerente: dalla formica alla tigre, dal chirurgo affermato al prete dal passato ambiguo, dalla ragazzina viziata al palazzinaro senza scrupoli, il sistema presentato da Lagoia manda un messaggio ben definito, declinato in tante voci e tanti volti. Non una verità semplificata e schematica, ma un universo di metafore e richiami, di grandissima potenza critica, eppure non privo di speranza: perché dell’uomo, di cui pure vengono presentate senza pietà debolezze e brutture, si sottolinea anche il libero arbitrio, vale a dire la capacità di creare dei momenti di discontinuità, che inframmezzano la piatta durezza della ferocia quotidiana (per approfondire, qui una breve intervista all'autore sul tema).

Tagliente lo stile, che ti rimane addosso anche dopo aver chiuso il libro; intelligente la costruzione, fatta di continui salti temporali e cambi di punti di vista, umani, animali e chi più ne ha più ne metta.

Una storia bruciante e una voce chiara. Insomma, per me, ne vale la pena!


domenica 29 giugno 2014

Recensione #55: I Buoni

L’inferno dei Buoni

Ieri pomeriggio, in treno, ho letto I buoni di Luca Rastello.
È un libro che si legge in un giorno, non tanto perché è breve, ma perché te lo vuoi togliere di torno, come una spina nel fianco.
Più che scomodo – come forse vorrebbe essere – lo definirei un romanzo fastidioso, per ragioni  in modi anche molto diversi.

Fastidioso l’avvio, nelle fogne di una città dell’est, innominata e innominabile, riconoscibile ma anche esemplare. Il dolore pungente del degrado annidato oltre i nostri confini, il degrado che non vorresti sapere, ti mette a disagio.
Fastidioso lo sviluppo. In Italia, nella città occidentale, “in quella terra fertile, ricca, efficiente, di suburbi verniciati salmone, inferriate, telecamere e avvisi sui cani feroci”, si consuma una storia che smaschera quelli che si credono “i Buoni”, le sette asfittiche e del no profit aziendalista. Rastello tratteggia in modo superbo le sfumature del Male, insidiato nelle pieghe dell’inferno dei Buoni, ponendo l’accento – particolare dolorosamente vero - sul linguaggio che questi organismi adottano. Le formule ricorrenti, le sigle, gli slogan e le trappole; tutti strumenti per dar vita a “la quintessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che si erge contro il male assoluto”.
Infine, fastidioso lo sbracamento finale. Negli eccessi che – anche se niente affatto incredibili – forse era meglio lasciar sottintesi. Ma soprattutto nella degenerazione della trama, che, nel momento in cui perde aderenza alla realtà, vanifica almeno in parte il risultato finale, perché concede una tregua al lettore.

Al termine della lettura, frastornata dalle emozioni che I Buoni mi ha scatenato, ho cercato conforto e confronto nella tempesta di informazioni della Rete. E qui mi sono accorta di essermi persa un pezzo. Presa com’ero nelle mie indignate riflessioni, non ho colto i riferimenti al Gruppo Abele (per cui effettivamente Rastello ha lavorato) e a Don Ciotti, che farebbe capolino dietro la figura di Don Silvano.
Dico farebbe, perché è facile immaginare la polemica che si è scatenata quando lettori più attenti di me hanno sollevato il velo della metafora e creduto di riconoscere nel romanzo una trasparente accusa a una realtà specifica.
L’autore a questo punto si è premurato di ricordare al mondo la dichiarazione che prudentemente aveva inserito all’inizio della sua opera: “Nomi propri, toponimi e riferimenti storici sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto, è corretto considerare queste vicende come immaginarie”. Pur di liberarsi dell’accusa di aver scritto un romanzo contro Don Ciotti, è arrivato a sbandierare un non del tutto credibile “Don Silvano c’est moi”.
Dopo aver letto diversi autorevoli articoli, ho deciso che la questione mi pare irrilevante.

Se probabilmente è vero che l’opera prende avvio da una realtà nota e presente e – ipotizzo – dolorosa per l’autore, è vero anche che, a una come me, che non ha pensato a cercare dirette rispondenze con le cosiddette “storie vere”, I Buoni ha parlato in modo onesto. È proprio quando un testo riesce a staccarsi dalla stretta contingenza della cronaca e della memoria, per dire una parola vera sull’uomo, che l’operazione del romanzo può dirsi riuscita. Tutto il resto quindi, come sempre, è solo polemica.  

domenica 15 giugno 2014

Recensione #54: Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta

Viaggio dell’anima

Credo di aver comprato Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta per una specie di richiamo del destino. Altrimenti non si spiegherebbe perché gli autorevoli e lontanissimi consigli di un amico della mia tardoadolescenza, turbato e illuminato da questa lettura, mi siano tornati in mente all’improvviso una mattina all’alba, spingendomi ad acquistare e cominciare in tempo zero la lettura, pigramente rimandata per tanti anni.
In effetti, questo libro mi ha parlato nel profondo, drammaticamente oscurando il mio senso critico. E così, mentre cerco di scrivere cose obiettive, mi accorgo che del racconto non ricordo già più niente. Solo i pensieri che mi ha fatto nascere dentro. E mi chiedo se possa avere un valore raccontarli qui, in questo ennesimo tentativo di interpretare le nuvole.

Che cos’è la Qualità? Se lo chiede ossessivamente il protagonista-autore del romanzo, mentre, in sella alla sua moto, attraversa gli Stati Uniti in compagnia del figlio Chris. Questa domanda in passato l’ha portato oltre il limite della follia, ha distrutto la sua vita e cancellato i suoi ricordi. La sua mente, riportata all’ordine a suon di elettroshock, dovrebbe starle prudentemente alla larga. Eppure il tarlo della Qualità torna fuori, e gli si ripropone insistentemente anche durante questo viaggio, che dovrebbe essere una bella vacanza padre-figlio, e invece si trasforma nell’ennesimo viaggio in profondità, alla ricerca del senso.
Perché si tratta di questo, in fondo. La differenza fra capire e non capire, tra sapere come funziona una moto e non saperlo, tra chi si accanisce nella ricerca, anche oltre il limite del buon senso, e chi si accontenta di lamentarsi blandamente, determina la Qualità. Cosa vuol dire allora vivere secondo la Qualità? La risposta sembra essere: cercare, farsi delle domande, saper andare in profondità. Anche a costo di farsi male.
Nel suo viaggio alla ricerca di se stesso e dei suoi ricordi, il protagonista ripercorre il proprio cammino. È un cammino che è partito dalla scienza, è passato per la retorica, la filosofia, ed è approdato – infine – alle motociclette. Sì, perché la motocicletta, con i suoi meccanismi solo apparentemente complessi, è, per l’autore, la metafora perfetta della Qualità, intesa come il principio fondante che riunisce soggetto e oggetto, mente classica e mente romantica.

Attraverso la motocicletta, e più in generale con la sua ricerca, Pirsig compie, insomma, un tentativo di riconciliare arte e scienza, passione e ragione, mithos e logos... Nel tentativo di ricomporre questa frattura la sua mente vacilla pericolosamente. Cosa lo salva? Qui viene il bello. Lo salva suo figlio. La risposta definitiva a tutte le sue domande ossessive è sempre stata lì, in viaggio con lui, aggrappata alla sua schiena. 
Una volta afferrata questa semplice verità, il nodo si scioglie, e il romanzo finisce. Leggendo, in un primo momento, mi è sembrato che questa risposta fosse un po’ semplicistica. Ci ripenso oggi, quasi a freddo, e mi pare tutto il contrario: la conclusione non è semplicistica, è semplice! È quando smette di arrovellarsi su se stesso, sulle proprie pur urgentissime e legittime questioni, nell’esatto momento in cui si apre all’altro, che il protagonista si salva. Non nella risposta metodica alla domanda insistente, ma nell’abbandono alla relazione. E dopo aver scoperto questa pace, effettivamente, non c’è più niente da dire. 

domenica 18 maggio 2014

Recensione #53: La gabbia d'oro

La gabbia delle ideologie


"Se non potete eliminare l'ingiustizia, almeno raccontatela a tutti."
Alì Shariati

Ho finito di leggere La gabbia d’oro da una settimana e ancora non mi sono decisa a scriverne una riga. Faccio fatica a mettere in ordine in pensieri, a dare un nome alle cose. Quello che ho davanti è senz’altro un romanzo, ma un romanzo particolare. Più che un romanzo a tesi, più che un romanzo storico, mi viene quasi da definirlo una parabola. L’impressione fortissima che si ricava dalla lettura, infatti, è che l’autrice (Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003), tutto volesse meno che fare delle speculazioni letterarie. Piuttosto, che abbia scelto il romanzo perché il suo messaggio arrivasse al maggior numero di persone possibile.

La gabbia d’oro è la storia di una famiglia iraniana squassata dalla rivoluzione: tre fratelli, unitissimi nell’infanzia, vengono separati e distrutti dalle ideologie, vere e proprie gabbie, in cui si trincerano. Il maggiore sceglie infatti la cieca lealtà allo Shah;  il mediano prende la via del Tudeh, il partito comunista clandestino; mentre l'ultimo aderisce al fanatismo della rivoluzione khomeinista. A cercare invano di tenerli uniti è solo la sorella Parì, figura solare e moderna, carissima amica dell’autrice. Una storia vera, quindi. Vista e vissuta vicinissimo dalla Ebadi, che infatti, pur mantenendo una voce molto limpida, trasmette la propria urgenza di raccontare, di dar voce all’ingiustizia e all'assurdità che negli ultimi anni hanno sopraffatto migliaia di famiglie iraniane.

In questo caso, quindi, il romanzo è innanzitutto sociale: grido di allarme, denuncia, gesto di compassione. Questa finalità è evidente anche nella forma: asciutta, con ampie e chiare spiegazioni (ottime per gli ignoranti come me) degli avvenimenti. La voce dell’autrice scandisce gli eventi senza fronzoli né sentimentalismi; eppure suona profondamente innamorata dell’Iran, della sua cultura, dei suoi profumi e dei suoi colori. La denuncia della Ebadi diventa così grido di dolore per una terra sconvolta, per una cultura dilaniata. In questo senso, dunque, la vicenda di Parì e dei suoi fratelli è paradigmatica: uno strumento - è l'autrice stessa a dichiararlo nell'ultimo capitolo - per raccontare al mondo l’assurda situazione politico-culturale in cui versa l’Iran.

Non quindi un romanzo come sono abituata a pensarlo, in cui soffermarsi su profondità di personaggi e scelte stilistiche, ma la testimonianza, violenta e appassionata, di un pezzo di storia iraniana e non solo. Perché il dramma dei morti insepolti, con cui l'opera si apre e si chiude, non è anche quello dell’Antigone di Sofocle?

mercoledì 7 maggio 2014

Film #16: Grand Budapest Hotel

Il film racconta la storia di Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), concierge del Grand Budapest Hotel, e del suo discepolo, il giovane garzone Zero (Tony Revolori).
La loro sfavillante routine lavorativa al Grand Budapest è interrotta dalla morte di Madame D., una vecchia e ricca cliente dell’albergo, nonché amante di M. Gustave. Al quale, tra l’ira e lo stupore dei familiari, lascia in eredità un quadro di inestimabile valore.  Questo lascito sarà la scintilla di una serie di avventure che sconvolgeranno la vita di M.Gustave e dell’onnipresente Zero.

Ho l’impressione che Wes Anderson, il regista, abbia voluto realizzare un omaggio al cinema comico in bianco e nero. Infatti le situazioni che si vengono a creare, come anche il modo di muoversi dei personaggi, sempre di corsa, mi ricordano molto i film di Chaplin. Senza contare che molte scene potrebbero essere anche mute.
Nonostante ciò la bellezza dei dialoghi è uno dei punti forti del film. Il linguaggio sempre elegante con cui si esprimono sia i personaggi che la voce narrante contrasta perfettamente con il ritmo frenetico della vicenda e fa risaltare maggiormente l’ambientazione onirica e caleidoscopica che accompagna lo spettatore per tutto il corso del film.
Inoltre il complesso gioco di narratori fa si che in ogni momento lo spettatore sia accompagnato da una voce narrante calda e forbita, che non attenua, anzi amplifica il senso di fantastico generato dalla scenografia dettagliatissima e molto colorata.


Azione frenetica, dialoghi eleganti, complesso meccanismo narrativo e scenografia fantastica rendono il film una commedia brillante che travolge lo spettatore con il suo ritmo forsennato e il suo spirito arguto.

domenica 4 maggio 2014

Recensione #52: Acciaio

Sensazioni di Acciaio

Ci sono libri che si lasciano leggere. No, di più, riproviamo. Ci sono libri che sono fatti per essere divorati. Le parole, trangugiate troppo in fretta, si incastrano tra le tue. Il ritmo ti si insinua nelle frasi, ti fa sentire coinvolta, catturata. Quando li finisci, ti fanno venire voglia di parlarne, di confrontarti, di scriverne. Per riordinare i pensieri, per capire se hai capito. Se sotto la superficie incrinata delle emozioni hanno qualcosa di profondo da dire. Ci sono libri che creano sensazioni precise, che alcuni scambiano per valore letterario e altri per illusioni da due soldi. Acciaio è uno di questi.

Ho ceduto alla tentazione di Silvia Avallone con qualche anno di ritardo, dopo averla sbirciata con curiosità dalle recensioni entusiaste sui settimanali, e dalle sue colonne – peraltro molto ben scritte – sul Corriere della Sera. Dopo tanto successo e tanto clamore, oggi che la Lucchini è su tutti i giornali, e le pagine del suo fortunato esordio guadagnano attualità e potenza insperate, mi sembra di avere una giustificazione adeguata per affrontarla direttamente.

Acciaio è la storia di Anna e Francesca, due adolescenti bellissime costrette a crescere nel mondo maschilista e crudele delle case popolari di Piombino, con l’altoforno Afo4, di cui in questi giorni tanto si parla, a scandire le giornate e inquinare i polmoni, e l’isola d’Elba come miraggio inarrivabile sullo sfondo. È la storia di come il loro piccolo universo si incrini all’impatto con la vita adulta, con un mondo spietato in cui puoi farti largo solo se sgomiti e calpesti i tuoi simili… o forse no. Forse non sono tutti davvero così cattivi? Forse una piccola speranza è possibile? L’autrice, che fino all’ultimo capitolo vuol fare la dura, accenendosi a tratti morbosamente contro lo squallore, le bassezze e la grettezza di questa periferia trascurata e invisibile, all’ultimo sembra avere un ripensamento: come se si ricordasse di star parlando di due adolescenti, prova a congedarle con un timido lieto fine, che però al lettore – o forse solo a me – suona come un contentino.
La stessa incertezza si riscontra anche a livello di stile: se sei nella testa di un quindicenne eccitato, che guarda la ragazza che gli piace un attimo prima di baciarla, davvero puoi dire “si era truccata un poco, oggi”? o “la gonna le si era un poco alzata”? Non so, a me sa di finto, di poco convinto. E mi viene da chiedermi se non sarebbe invece stato meglio aprire un po’ al dialetto… non credo che questi giovani parlino un italiano con tutte le consonanti e i congiuntivi al loro posto. Ma forse queste sono scelte editoriali, non divaghiamo.

Quello che conta è che in questo libro si sente una storia forte, una storia viva, se vogliamo usare un aggettivo caro alla Avallone, che non è la vicenda delle due amichette del cuore che litigano e poi magari fanno pace, ma quella drammatica dell’Italia sul baratro, alla vigilia del tracollo economico-culturale. Non mi sembra che all’autrice manchi il coraggio di raccontarla, ma forse la determinazione di andare fino in fondo, senza indugiare in banali quadretti da telefilm. Qualcuno potrebbe rispondere che è un problema di età, che a venticinque anni non si può essere già così cinici… ma a me le questioni anagrafiche sembrano sempre scuse.

Se leggerò Marina Bellezza? Non lo so, Amazon me ne ha proposto un capitolo attaccandolo direttamente all’e-book di Acciaio. Devo dire che l’inizio non mi ha entusiasmato, ma non si sa mai. Magari tra un po’ diventa attuale anche quello e allora chi può dirlo.


lunedì 14 aprile 2014

Recensione #51: Sette anni in Tibet

Un bel documentario (NON un bel film)


O meglio: se volete anche parliamo anche del film, ma – a parte per Brad Pitt, che però a sto giro è decisamente troppo biondo anche per una superfan come me - davvero non ne vale la pena.

Ho letto Sette anni in Tibet per accontentare il mio amico Della, al quale per il suo compleanno avevo propinato nientemeno che le quasi mille pagine di Shantaram. Non so se per vendetta o per sincero interesse per la mia opinione letteraria (credo la prima, ma non si sa mai), qualche mese fa mi ha messo in mano questo. Questa sì che è un'avventura incredibile in Asia. – mi ha detto, sottintendendo che il mio amato Shantaram fosse un ammasso di fandonie – Però non ti aspettare un romanzo.”

In effetti, fin dalla premessa del libro, Heinrich Harrer ci tiene a sottolineare che “siccome non ha alcuna esperienza di scrittore, si limiterà a esporre i fatti”. Come dire: “se il risultato è noiosissimo, non prendetevela con me, io vi avevo avvisato”. O forse: “questa storia è talmente incredibile che per appassionare i lettori non serviranno i soliti artifici retorici degli scrittori, basteranno i fatti.” Che di per sé è un'affermazione non troppo lusinghiera per la categoria dei narratori, ma che d'altro canto dice sicuramente alcune verità su quest'opera.

All'inizio del 1939, Heinrich Harrer, ex campione del mondo di sci e conquistatore di numerose vette inviolate, tra cui l'Eiger, viene scelto per partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Internato in un campo di prigionia poco dopo lo scoppio della  guerra, tenta più volte la fuga, rifugiandosi, con incredibili peripezie, in Tibet. Qui, superata la diffidenza iniziale della popolazione, entra in perfetta sintonia con la cultura tibetana, arrivando a stringere amicizia con il Dalai Lama.

Direi che l'opera si può dividere orientativamente in due parti: nella prima, il protagonista intraprende un incredibile viaggio per raggiungere Lhasa, la città sacra del Tibet. Lo stile narrativo piatto e asciutto, quasi da documentario, è funzionale alla narrazione, il ritmo si mantiene serrato, il lettore incollato alla pagina.
I problemi arrivano nella seconda parte. Una volta arrivato a Lhasa, il protagonista/narratore indugia nel descrivere usi e costumi tibetani, senza però riuscire a trasmettere al lettore la profondità della sua esperienza. Di fronte al resoconto di Harrer, viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio scrivere un romanzo, invece che una cronaca... forse un vero scrittore sarebbe riuscito a mantenere la verità dei dettagli culturali interessantissimi sul Tibet alla vigilia dell'invasione cinese, esprimendo anche l'emozione dell'incontro con una civiltà ancora  ancora perfettamente incontaminata dal mondo esterno.

Non so, forse sono una vittima degli anni Novanta, e la leggenda di Brad Pitt al cospetto del Dalai Lama bambino mi aveva riempito di aspettative quasi mistiche su quest'opera. Di fatto, però, ho l'impressione di aver visto un bel documentario: interessante, ma freddo. Non mi sembra di aver già viaggiato, come tante volte mi succede con i bei romanzi... al contrario, però - e sospetto che questo fosse lo scopo del mio amico Della - ho tantissima voglia di partire :)

mercoledì 19 marzo 2014

Recensione #50: Il conte di Montecristo

Le infinite meraviglie del Conte

Il triste giorno della recensione è arrivato.
Dico triste non tanto (o non solo) perché la mia pigrizia scalpita al pensiero della sana fatica che comporta il riordinare le idee a fine lettura, quanto per la fine della lettura in se stessa.
Ho ritardato questo momento quanto ho potuto. Dopo le prime forsennate settimane, ho decisamente rallentato il ritmo; negli ultimi giorni non leggevo praticamente più… la sola idea di abbandonare ll conte di Montecristo mi sembrava triste.
Siamo di fronte a un fenomeno piuttosto raro, almeno per me: in genere, la fretta di finire mi spinge a macinare le pagine senza pietà e senza scrupoli. Di solito - anche se mentre lo scrivo mi sembra stupido - non vedo l’ora di finire un libro per archiviarlo, metterlo tra i miei doveri compiuti, e passare ad altro.
Con il Conte, invece, è stato tutto diverso. Il Conte è stato una sorpresa continua.
Ed è così che vorrei costruire questa pagina, stasera. Scarto senza dubbio l’ipotesi di un’analisi approfondita (non ne sarei in grado, e in ogni caso non sarebbe questa la sede), per concentrarmi sui pregiudizi che questa lettura ha scardinato. Parlo troppo di me? Può darsi. Ma credo che anche il riflesso di un’opera sui suoi lettori possa in qualche modo illuminare l’opera stessa.

Innanzitutto, l’approccio. Mi sono avvicinata a Dumas con diversi pregiudizi. Nonostante l’appassionata sponsorizzazione di Latti, e la pur piacevole lettura di La regina Margot dell'estate scorsa, qualcosa dentro di me mi diceva che ll conte di Montecristo era un mattone troppo pesante per le mie forze. Che non avevo più l’età né il tempo per dedicarmi a un libro così alto, per di più in piena vita lavorativa. Che poi il romanzo ottocentesco ormai mi suona sempre un po’ datato, come i film in costume. Insomma, mi sono imbarcata nell’impresa certa che ci sarei rimasta impantanata per dei mesi. Come dicevo, avevo sbagliato su tutta la linea: le avventure di Edmond Dantès mi hanno completamente conquistato fin dalle prime pagine. 
Fin qui, niente di speciale: so bene di avere l’entusiasmo piuttosto facile (quanti libri acquistati dalla copertina…). Ma ahimè – chi mi conosce lo sa - la mia ira è davvero funesta quando a un inizio folgorante segue un intreccio zoppicante, quando la trama si sbrodola… Era facile aspettarsi qualcosa del genere da un malloppo come questo. Ma anche su questo fronte Dumas non mi ha deluso: le sue pagine sono puro intrattenimento, molto meglio dei telefilm. La trama è complessa e calcolata fino alla fine, il ritmo tiene perfettamente.
E c’è di più. Il Conte regala emozioni anche sul finale. Non solo perché – ormai l’abbiamo capito – Dumas è un maestro della narrazione e non cadrebbe mai nel banale errore di un colpo di scena, o peggio ancora, di una moraluccia pretenziosa. Sul finale, il tono si innalza. Non siamo più davanti alla travolgente avventura degli inizi, all'indignazione e alla tensione mirabilmente tenute vive per mille e passa pagine. Sul finale vediamo emergere la riflessione sull'uomo, che riesce a essere profonda senza dispensare verità da quattro soldi. Una riflessione che è credibile e per questo non cade nel moralismo.

E così, quando ormai sono completamente conquistata, quando ormai il Conte ha vinto ogni mia resistenza, mi ritrovo a salutarlo a bordo libro. Per questo, stavolta, il giorno della recensione è un giorno triste.  

sabato 1 febbraio 2014

Recensione #49: Addio, Monti

Giudizi universali dai Monti

Quando, nel corso dell’ennesima deplorevole pausa pranzo consumata tra focaccia e facebook, ho letto il titolo Addio, Monti, ho pensato a una riflessione sul fallimento di Mario Monti politico, con tanto di riferimento alla tradizione letteraria, come dire che in Italia alla fine tutto cambia per rimanere uguale. Invece no. O non solo. I monti del titolo, infatti, sono quelli del rione Monti di Roma, ovvero lo splendido pittoresco quartiere, recentemente riabilitato, in cui proliferano caffè librerie, enoteche e negozietti vintage da soddisfare le ansie anche dei più accaniti radical chic. Quartiere che, guarda caso, sorge a tre minuti dalla storica e abbandonata casa di famiglia, meta di annuali entusiasmanti pellegrinaggi e oggetto del desiderio di ogni uggiosa mattina milanese.
L’attacco di nostalgia è immediato e seguito, nel giro di tre minuti, da acquisto e inizio lettura.

Domenica pomeriggio. In un supermercato stracolmo di prodotti biologici e popolato da fastidiosa e variopinta e decisamente troppo numerosa fauna, il narratore – escort e ghost writer per eccentrici personaggi del mondo dei media – e la sua esauritissima amica Gloria fanno la spesa aggiornandosi sulle rispettive vite. Tra bresaola, alcolici e verdure ogm, i due dipingono un desolante ma vivido affresco sul quartiere, su Roma, e sull’Italia contemporanea, che si trascina tra feste, marchette, e soprattutto ansia di affermazione. Attraverso i lunghissimi monologhi dei protagonisti – pallidissimo il tentativo dell’autore di far sembrare la narrazione un dialogo – al lettore vengono presentate miserie di ogni sorta: c’è l’economista eccentrico che scrive sui giornali, a cui le aziende puntualmente pagano le “consulenze”; ci sono gli Affamatori, lombardi trapiantati a Roma in cerca della Dolce Vita; ci sono le belle signore di Cortina, l’organizzatrice di eventi in cerca di amici, la redenzione cattolica, la speculazione edilizia che scommette sulla retorica pasoliniana…

Troppo moralismo? Non saprei, non mi sembra. Perché - oltre allo stile brillante, che decisamente aiuta - nemmeno i protagonisti, che pure sputano sentenze come disperati, si chiamano fuori dal sistema che condannano. Esattamente come l’autore, il quale abita “da anni non sospetti nel rione Monti, luogo d’inquietanti dinamiche sociali”. In questo modo, mi pare, da un lato Masneri evita la pedanteria della favoletta greca con la  spiegazione nel finale, ma dall’altro lascia al lettore il margine per formulare un giudizio autonomo su questo mondo corrotto e fumoso; mondo di cui, peraltro, probabilmente il lettore stesso fa parte, visto che ha appena letto un libro di Minimum Fax...

giovedì 30 gennaio 2014

Incursioni musicali:episodio #13- Tom Petty



Questa volta non ho proprio scuse: la mia latitanza da Nefelomanzia è imperdonabile e merita una punizione corporale d’altri tempi (la mia vena autodistruttiva emerge improvvisa e violenta come sempre).

In realtà, credo di stare espiando i miei peccati intrappolata per lunghi pomeriggi in nel traffico della tangenziale o in circonvallazione. Pensateci bene, prendete la cartina di Milano, guardate le tangenziali, e poi le varie circonvallazioni fino ad arrivare a quella più interna. Aggiungeteci un effetto 3D, fate sprofondare un po’ piazza del Duomo e… ops… ecco a voi i gironi dell’Inferno Dantesco! 


Insomma, sto pagando la mia colpa, ve lo garantisco!

La mia auto, una Punto grigia bistrattata dai miei studenti, ha tante qualità e un piccolo difetto. Lo stereo, incorporato, legge solo CD audio, niente MP3. In altre parole, il mio cruscotto è completamento ricoperto di almeno un’ottantina di dischi trasparenti: gioia degli amici che si dilettano a cercare la giusta colonna sonora di ogni viaggio, e disperazione dei miei genitori che con l’immancabile “Devi nascondere questi CD, ti spaccheranno l’auto per rubarteli!”, provocano il mio altrettanto immancabile “V*” ( la censura è d’obbligo!)

La vera domanda è: cosa ascoltare quando, soli in auto, si va avanti a passo d’uomo o si è completamente bloccati per strada?

Non è detto che l’artista del momento sia sempre la risposta giusta. Per me, per esempio, non lo è quasi mai. 

Per un po’ ho provato con gli Smiths, con la loro capacità di creare un clima quasi meditativo. Così, in quelle splendide occasioni, in cui si è completamento fermi ed si ha la netta sensazione di non avere alcuna via di fuga,   “Please, please, please let me get what I want”   o “Bigmouth Strikes Again”  hanno il giusto sound “quieta-animi”. 

Negli ultimi tempi però, tra la mia razionalità che mi fa dire “Non c’è niente da fare, puoi solo stare qui in coda ed aspettare” e il mio animo mediterraneo e focoso che mi fa imprecare, non scorre, come dire, buon sangue. 
Ovviamente anche la scelta musicale ne risente, e la mia insoddisfazione non fa altro che aumentare causando schizofrenici andirivieni tra Norah Jones e i Foo Fighters.
 
Poi, l’ho trovato: tra i cd a portata di ladro, ecco un’antologia di Tom Petty.  

Un’artista tradizionalmente rock, con ritornelli orecchiabili e arrangiamenti sofisticati, in grado di  modulare la voce per urlare lo sdegno, o sussurrare l’amore;  tante chitarre e testi elegiaci che raccontano storie di ultimi e perdenti.
Per cui “Some days are diamonds, some days are rocks, some doors are open, SOME ROADS ARE BLOCKED” (Walls- 1996)
Insomma, solo del sano rock americano può salvarmi dalla mia battaglia interiore e raccontare le mie “Psycotic reaction”!

Soundtrack: “Walls (circus)”, Songs and Music from She's the one", 1996


Soundtrack:  “Learning to fly”, Into the Great Wide Open, 1991

mercoledì 22 gennaio 2014

Recensione #48: E non disse nemmeno una parola


Un romanzo che "tocca il cuore"


Ho pensato molto al destino della Nefelomanzia, ultimamente. Non è passato giorno senza che il senso di colpa mi ricordasse che non stavo scrivendo da mesi e che i libri non recensiti si stavano accumulando, e che cominciavo a dimenticarne i dettagli... sono arrivata a pensare che non ci fosse più posto per la scrittura nella mia nuova vita adulta da lavoratrice a tempo pieno (perché nel frattempo il famigerato “lavoro vero” l'ho trovato), con una casa a cui badare e un marito (è ancora così strano scriverlo) a cui vorrei dedicare sempre più energie di quelle di cui dispongo.
Insomma, mi ero quasi convinta a lasciar perdere, anche se questo significava venir meno alla lista dei miei buoni propositi dell'anno scorso, che prevedevano anche il mantenimento della mia vena letteraria, oltre al matrimonio al lavoro e agli amici; ma del resto una deve anche saper riconoscere il proprio limite. E fermarsi, quando la giornata è finita; forse.

Poi ho letto un libro che mi ha "toccato il cuore" (per usare un'espressione del protagonista). E, improvvisamente, con un'urgenza che avevo quasi dimenticato, ho cominciato a scrivere. 

E non disse nemmeno una parola è un romanzo bellissimo e straziante del premio Nobel Heinrich Boll. L'ho acquistato con un click su Amazon qualche giorno fa, nel corso della mia consueta caccia al romanzo novecentesco a buon mercato. Il nome dell'autore (lo stesso delle amatissime e forse altrettanto toccanti Opinioni di un clown) e il prezzo di copertina mi hanno convinto a procedere e ad avventurarmi nella lettura nei miei soliti trasbordi casa-lavoro, lavoro-pranzo, pranzo-lavoro, lavoro-casa. Il risultato è che il mio umore è precipitato e che da una settimana non mi sogno neanche di prendere la bici, perché in ogni momento libero voglio leggere. Leggere la storia tremenda di Franz e Kate, sposi consumati dalla povertà e dallo squallore della Germania del dopoguerra. Sposi che non riescono a convivere senza picchiare i loro figli e senza ubriacarsi per la rabbia, che poi fanno i debiti per incontrarsi in luride stanze d'albergo in cui parlare in pace.

E non disse nemmeno una parola è il racconto di due giorni della loro vita infelice, condotta tra dolore, meschinità e miseria. Boll dimostra ancora una volta una durezza e una lucidità nel raccontare dolore e bassezze umane che non possono lasciare indifferenti. Come ci riesce? Forse perché neanche lui, come i suoi personaggi, può rassegnarsi definitivamente al male. Così il romanzo diventa anche racconto della potenza di un sentimento che non si consuma, di una relazione che non si spezza, e che sa riportarsi a qualcosa di più alto. Una storia di fede e di preghiera, a dispetto della corruzione e della mondanità della chiesa e della debolezza stessa dell'uomo. Un'opera faticosa, insomma, che non risparmia nessuna angoscia al lettore. Ma che, proprio per la sua onestà, alla fine regala la speranza autentica di un futuro (non per niente, l'opera si conclude con la parola “casa”, intesa finalmente come luogo di accoglienza e non più di dolore).