martedì 29 maggio 2012

Recensione #11: La casa di via Valadier


Triste attualità di un classico


Visto che in una delle mie ultime recensioni (qui) mi sono scagliata contro il lavoro approssimativo di alcuni editori, comincerò questo post elogiando il formato e il paratesto dell’ultimo libro letto.


Trovo che la mia edizione della Casa di via Valadier (BUR, La Scala, 2001) sia piuttosto affascinante: per prima cosa, il volume non è troppo alto (poco più di 130 pagine). Il progetto grafico è interessante, con la sua copertina sobria a toni spenti. I testi sono accompagnati da una breve quanto utile prefazione di Geno Pampaloni. E veniamo infine alla scelta dei testi: si tratta di due racconti (Esiliati e La casa di via Valadier), scritti in due momenti diversi e legati da un personaggio ponte, che è protagonista nel primo, e comparsa nel secondo. Sono due testi che stanno bene insieme, due testi che creano un insieme interessante.
Insomma, La casa di via Valadier è un libretto ben costruito.

Un libretto in cui si parla di tante cose: di fascismo socialismo e comunismo, di politica, di corruzione e disoccupazione, di guerra e malattia, di colpa innocenza e perdono; il tutto con termini e toni di un’attualità quasi inquietante. Si parla anche di Roma, tanto. Roma caotica e malmostosa, in Esiliati; e Roma scintillante, in cui si torna sempre con un tuffo al cuore, oppure in cui si rimane, come intrappolati, in La casa di via Valadier. Roma a cui si fa ritorno, per fare i conti col passato.
I personaggi sono decisamente troppi ma molto interessanti. Quasi tutti delineati in pochi tratti, e quasi tutti sfaccettati. Bella la figura di Leonardo, prima aspirante giornalista schiacciato dalla memoria di uno zio famoso, e poi giornalista affermato, che fa ritorno nei luoghi dell’infanzia per fare i conti con la memoria di suo padre. E suo padre: l’avvocato Turri è chiaramente pensato per essere antipatico al lettore. Il suo carattere ignavo e opportunista è contrapposto a quello, retto fino all'ingenuità, della sorella Anita. Ebbene, questa figura così negativa viene vista sotto una luce nuova nella conclusione, proprio da Leonardo, che prima si vergognava della (tardiva e quasi segreta) adesione al fascismo del genitore… Colpo di scena? Non direi. Il linguaggio spoglio, lo stile lineare, l’insistenza sui dettagli fanno sembrare tutto normale, quasi banale. E questo alimenta il contrasto con la drammaticità e la durezza dei fatti narrati, e alimenta la sensazione di ansia.
Il risultato è piacevole e fa riflettere. Ed è un risultato invidiabile, perché, se probabilmente non cambia la vita di nessuno, sicuramente supera le altissime barriere del mero intrattenimento.

E se tutti questi argomenti ancora non vi hanno convinto, sappiate che questo è il primo libro che abbia appassionato tutti i membri del mio Club di Lettura J

lunedì 28 maggio 2012

Giorni e nuvole #2


Laura. le priorità

Laura guarda distrattamente il telefono: le 14.06, finalmente. Reprime un sospiro di sollievo; quindi chiede scusa, si alza, paga, ringrazia, e va frettolosamente verso il motorino.
Mette in moto e parte rapida: Marco la aspetta per il caffè e lei non vuole fare tardi.
Mentre corre sulla circonvallazione, cerca di farsi scivolare di dosso la tensione del pranzo: non le va di appesantirlo con gli stress delle sue amiche.
E comunque ha ragione lui, quando dice che Marta è pesante: ultimamente vederla è diventata una fatica. Come se fosse l’unica, poi, ad aver finito l’università e ad aver voglia di sistemarsi.
Si ferma all’ultimo semaforo. Certo che quando si vuole far tutto da soli ci si stanca di più. E lei lo sa bene; anche lei era come Marta, anche lei portava il peso della sua vita da sola… anche lei, prima di Marco.

Marco compare sorridente dietro l’angolo.
Entrano al bar e ordinano il solito caffè macchiato.
«Allora, come va la giornata?»
«Bene, tra poco vado a dare ripetizioni alla sorellina di Luca.»
«Chi è Luca?»
L’idillio si interrompe temporaneamente: Laura ha un moto di insofferenza. Possibile che Marco non impari mai il nome dei suoi amici? Lei si ricorda perfettamente tutti suoi impegni della settimana, le sue scadenze e i suoi ricordi, e lui mai niente. Ma si riprende in un attimo: lui ha così tanto da fare… Ha un lavoro vero, una casa, un conto in banca; insomma una vita adulta. Non è come lei, che ha il privilegio di poter investire tempo ed energie a imparare nome cognome e data di nascita dei suoi colleghi/cugini/amici/conoscenti. Gli sorride pentita, e in due parole gli ricorda la storia di Luca.
«Ah bene! Sono contento che hai questo lavoretto.»
«Sì, non è tanto, però finché non trovo di meglio…»
«Infatti. Devi prenderti il tempo di trovare una cosa che ti piace veramente.»
Lo guarda tra riconoscenza e ammirazione: è così bello che lui non le metta fretta! Che capisca benissimo che se avesse voluto un lavoro sicuro probabilmente non avrebbe studiato Beni Culturali. Si sente grata, e sposta l’attenzione su di lui: «A te come va invece?».
E lui racconta: non fa fatica a confidarsi, sfogarsi, affidarsi; e questo la fa sentire importante.
Mezzora dopo, Marco guarda l’orologio che gli ha regalato lei: la pausa è finita, deve andare.
Laura lo guarda entrare in ufficio e pensa che il fatto che lui voglia condividere con lei preoccupazioni e progetti, al momento, è l’unica cosa che la fa sentire viva.

18.36. Laura risponde al telefono di malavoglia. Stava per entrare nella vasca, dopo una conversazione stressantissima con la sua compagna di banco del liceo, in ansia perché il suo fidanzato è in ansia. Lei ha fatto la parte della buona amica, perché immagina che sia molto difficile stare con uno che non ha ancora trovato la sua strada; uno che non potrà mai offrire la tranquillità che Marco ha costruito così in fretta e bene.
Le avrebbe anche detto di uscire stasera, per una birretta tra amiche. Il problema è che, se non vuole essere un cadavere domani, che lei e Marco devono andare a quella cena di lavoro, a cui in effetti sarebbe bene fare una buona impressione perché Marco ci tiene tanto, e quella è gente grande, gente che guarda anche i dettagli (e anzi, forse dovrebbe cominciare a pensare a cosa mettersi), stasera dovrà per forza stare a casa e riposarsi.
«Pronto, parlo con la Dottoressa Laura Italia?»
È uno del Cagnoni di Vigevano; ha letto il suo CV, e vorrebbe incontrarla per fare due chiacchiere.
Mentre fissa il colloquio, Laura pensa che non ha nessuna intenzione di andare fino a là tutti i giorni per uno stage sottopagato. Sul serio, ha risposto all’annuncio senza pensarci. Certo, ha sempre voluto lavorare nel teatro. E il cartellone del Cagnoni di quest'anno è interessante, e a Vigevano è praticamente l’unico punto di riferimento per gli spettacoli, però no. Non è questione di non volersi svegliare presto al mattino; è che, come pendolare, dovrebbe rinunciare davvero a troppe cose: il tempo libero sarebbe ridotto al dopocena; e quando una lavora tutto il giorno, si sa, magari la sera non ha poi tutta questa voglia di uscire. Come farebbe ad andare al cinema, a leggere, scrivere, vedere gli amici? Come farebbe con Marco.
Già si immagina con lui in uno scenario di stanchezza casalinga; lei che si addormenta in pigiama davanti alla tv, che non ha più la forza né la voglia di dedicargli le attenzioni che merita, lui che, deluso, si richiude in se stesso e si butta nel lavoro; e poi, infine, loro due che cenano in tuta in silenzio… no, non funzionerebbe, non può accettare. È una questione di priorità.
E poi tanto le farebbero fare solo fotocopie.

Laura mette giù il telefono e scivola nell’acqua tiepida.
Sono le sette meno venti, le rimane meno di un’ora per rilassarsi. Alle sette e mezza Marco esce dall’ufficio, e di solito, mentre torna a casa, la chiama. Oggi pomeriggio aveva una riunione importante, forse avrà voglia di raccontarle com’è andata.




venerdì 25 maggio 2012

Incursioni musicali: episodio #7


Milano, ore 8.40. Nonostante sia sveglia da più di un’ora, il mio grado di attivazione rasenta lo zero.
Figurarsi poi se la prospettiva è quella di chiudersi in un’aula per nove ore di seguito! Non che il mio lavoro non mi piaccia, ma… Oggi è una giornata splendida, 27 gradi e miraggi di spiaggia a ogni angolo; l’idea di imbottigliarmi nel traffico per andare a scuola non è esattamente il massimo. In questo stato di prorompente entusiasmo, salgo in auto. Come spesso accade (come sempre accade) non ricordo quale sia l’ultimo cd che ho lasciato nelle fauci della mia vecchia autoradio. 

So solo che avrei voglia di ritornelli invadenti, di scontate melodie anni ‘80; di qualcosa di solare, mattiniero…
Ah, ecco: i Men At Work! Ho voglia di cantare “Do you come from a land down under?” e immaginare di essere anche io nel “mondo giù-di sotto”.




Ma le misteriose e imperscrutabili vie del destino… Sto esagerando?? Rettifico: in realtà sono stata come sempre io l’artefice del mio destino. Qualche sera fa, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, ho scelto un energico rock anni ’90. Per cui, oggi, giro la chiave nel cruscotto, e la macchina si riempie delle concilianti note di “Rape me” (per chi non lo sapesse: “Violentami”) urlato da Kurt Cobain.

Noooo! Non è giornata, non è il clima giusto, e soprattutto non è l’ora!

Non fraintendetemi: gli squarci sonori dei Nirvana hanno un valore immenso, danno voce all’inquietudine del vivere che non risparmia nessuno ma di cui quasi nessuno osa parlare. E l’atto di nominare di per sé conferisce forza e verità nuove a ciò che si teme.

Esistono innumerevoli variabili che influenzano una scelta musicale; la musica si deve adattare al momento della giornata, al luogo, alla compagnia, al tempo atmosferico… Per non parlare dello stato d’animo!
Stamattina, tutti questi fattori sono sfavorevoli all’ascolto del gruppo di Seattle. O per lo meno lo erano.

Primo incrocio, semaforo rosso. Sono pronta a cambiare il cd ma poi… Poi inizio a ripetere: “I’m not the only one”. La testa oscilla a ritmo, la mani tamburellano sul volante; il guidatore della Smart di fianco mi lancia un’occhiata interrogativa, e io decido di cantare ancora più forte e di spingere il piede sull’acceleratore. 

Contro ogni teoria, stavolta è stata la musica a modificare il mio stato d’animo; e a quel punto, i Nirvana erano perfetti per il traffico.

 
Soundtrack: "Down Under", Business as usual, 1981
                  "Rape me", In utero, 1993

mercoledì 23 maggio 2012

Film #1: Il pescatore di sogni


Una storia di pesci
(di Riccardo Mandrioli - Latti)

Che dire di un film in cui un saggio sceicco, un ittologo che parla con le sue carpe, una giovane consulente finanziaria, il ministro degli esteri britannico ed il capo ufficio stampa del governo di Sua Maestà (una donna davvero temibile) si riuniscono, volenti o nolenti, a pescare salmoni nel “lussureggiante” Yemen?

Questa è la trama di: “Il pescatore di sogni”; una commedia che non cambierà la vostra vita, ma che, se la guarderete con il giusto stato d’animo e senza troppe aspettative, può risultare davvero gradevole.
So bene che con il mio breve riassunto della trama ho già entusiasmato tutti gli appassionati di pesca sportiva, ma come convincere tutti gli altri lettori del blog che questo film è una commedia come si deve?

Potrei dire che i personaggi, interpretati da ottimi attori (Ewan McGregor, Emily Blunt, Kristin Scott Thomas etc.) sono molto simpatici, alcuni addirittura irresistibili; che ci sono delle battute niente male; che c’è quel giusto mix di satira sociale e reale utopia. 
Invece preferisco sponsorizzare il messaggio positivo del film (o meglio quello che per me ne è il messaggio) che conforta e tranquillizza l’animo e concilia lo spettatore con la vita e con il mondo: 

Ama ciò che fai, per quanto inutile ti possa sembrare, e fallo nel miglior modo possibile se vuoi essere felice e se vuoi rendere felice chi ti sta vicino. 













lunedì 21 maggio 2012

Giorni e Nuvole #1


Marta: Lo shopping 

Ho capito di avere un problema quando ho cominciato a guardare le altre.

Mi sono resa conto di fissarle, morbosamente. Sul tram, nei negozi, al cinema.
Sono quasi sicura che non sia attrazione: il mio fidanzato mi piace ancora abbastanza da non farmi sorgere dubbi in questo senso. È più una cosa che riguarda lo stile. Hanno tutte qualcosa di speciale. Qualcosa che in me stessa non ritrovo.
Osservo i modelli, valuto gli accessori, confronto i risultati; esamino i dettagli con precisione chirurgica. Poi li ricordo (ho  sviluppato una abilità impressionante nel memorizzare combinazioni e accostamenti). E poi li invidio.

Stamattina, per esempio.
Sono sveglia da più di un’ora, e non ho ancora trovato la voglia di alzarmi. E non che non abbia niente da fare: oggi ho addirittura due colloqui! Niente di serio, ovviamente; però comunque vorrei fare una buona impressione.
La verità è che piove, e non ho niente da mettermi. Faccio scorrere ossessivamente le possibili combinazioni di quei tre pantaloni e quelle quattro camicette; niente. Niente a che vedere con gli aggraziati impermeabili da mezza stagione, gli stivaletti, i jeans colorati, i leggins, le fantasie floreali che ho in testa.
A fatica mi alzo, entro in doccia. Con l’acqua che mi lava i pensieri, penso che proprio non so cosa mi succede: non so neanche i nomi dei vestiti, (cosa sarà un trench, per esempio? E un 7/8?) e del resto non ho mai desiderato conoscerli. E allora perché adesso vorrei essere la più alla moda della città?

Bene, a furia di immaginare combinazioni insoddisfacenti, sono riuscita anche a fare tardi. In passato, invece, ero sempre puntuale, sempre in tempo. Trangugio un saccottino, mi ustiono col caffè, mi lavo i denti ed esco.
Piove poco, per fortuna. I capelli resteranno decenti almeno stamattina.
Dopo sei fermate di autobus e una corsetta in via Senato, entro trafelata in un palazzo d’epoca. Mi fermo davanti alla porta prima di suonare: mi ricompongo, respiro. Entro.
La segretaria avrà cinque anni meno di me, ed è vestita che neanche mia zia. Tacco dodici, maglia color tortora, collana lunga d’argento.
Le sorrido impacciata, cercando invano di sembrare adulta.
Mi dà del lei con sicurezza e mi accompagna nell’ufficio della responsabile.

«Allora, come avrà letto dall’annuncio, noi le offriamo un contratto di formazione. Del resto per lei questa sarebbe la prima esperienza nel settore, giusto?»
Scorre il mio curriculum con occhi esperti e dita affusolate. Io mi sento peggio che all’orale di maturità. So bene che in fondo questa Dottoressa Zecchi sta cercando di fregarmi. Che mi vuole far sentire una merda, per costringermi ad accettare un lavoro non pagato e inutile e che in fondo nemmeno mi piace. Lo so benissimo, e continuo a ripetermelo; è il mantra scaramantico dei miei colloqui: anche tu valuti la loro offerta. Eppure, non riesco a concentrarmi davvero su questo. La guardo, guardo le sue unghie fresche di manicure, il rossetto in tinta col vestito, le decolté raffinate, e mi accorgo che sto disperatamente cercando di piacerle. Che più di ogni altra cosa vorrei che nel mio armadio ci fosse quel cappotto bianco che ha distrattamente abbandonato sulla sedia accanto a me.

Il secondo colloquio per fortuna era tenuto da un uomo. Con gli uomini è tutto molto più facile: loro non sanno valutare la sciatteria del tuo guardaroba al primo sguardo. Non sono in grado di capire che la borsa che hai scelto era l’unica decente che avevi, l’unica che non ti facesse sembrare una quattordicenne in vacanza.
Con un uomo si gioca su un altro terreno. Un terreno su cui, se non altro, sento di avere le scarpe giuste per camminare.
Esco dall’ufficio di Piazza Repubblica e mi sento sollevata: sono una che per oggi ha fatto la sua parte; una che quasi quasi si merita anche un premio.
Senza pensarci, faccio il numero di mia madre.
«Allora com’è andata?».
La sua voce trepida mi ricorda tutta la labilità della mia condizione. Mi ricorda che se non mi prendono neanche questa volta, anche domani sarò una disoccupata. Oggi non è un successo, è solo il minimo sforzo indispensabile per combattere un quotidiano fallimento.
Ingoio la mia presa di coscienza in un boccone e cerco vagamente di sembrare positiva: «Mah, sai com’è, i colloqui vanno sempre bene.»
Lei sorride dall’altra parte, e si mostra desiderosa di festeggiare: «Senti, oggi pomeriggio non lavoro. Ti va se andiamo a comprare delle scarpe? Mi pare che ne avessi bisogno…»
«Sono a pranzo con Laura, poi ho da fare. Mamma scusa arriva il tram, vado.»
Percepisco la sua delusione e le sue domande; sto per dispiacermi. Ma ricaccio amaramente il tutto dal suo lato della comunicazione.

Laura mi aspetta alla fermata. Come al solito è in anticipo.
Baci frettolosi e ci infiliamo nel solito bar.
Ordiniamo un’insalata, perché vogliamo rimanere magre, non abbiamo più mica sedici anni.
«Allora oggi avevi un colloquio?»
«Due.»
«E come sono andati?»
«Boh, sembra bene, ma non si può mai dire. Nel secondo posto se non altro ci sarebbe un rimborso spese. Bello questo vestito! Dove l’hai preso?»
«Oh, niente di che, l’ho preso coi saldi.»
Avrei proprio bisogno di un vestito così. Fa tanto mezza stagione in città.

Giorni e Nuvole - Intro



Oggi vorrei inaugurare una nuova rubrica settimanale per Nefelomanzia.

Un po’ di amici mi hanno suggerito di arricchire questo spazio con qualcosa di più personale delle semplici recensioni.
Forse solo perché la proposta mi ha lusingato, ho deciso di accettare il consiglio, e di provarci.
L’idea è di pubblicare una serie di raccontini (non molto più lunghi di un post, così non ci si annoia troppo) con un tema comune non molto originale, ma se non altro attualissimo: il lavoro. O meglio, il non-lavoro.

Ultimamente, gli eventi mi hanno costretto a pensarci spesso. In questi mesi di attività saltuarie improbabili, in cui misuro il tempo libero a suon di recensioni, ho visto affrontare e affrontato a mia volta la disoccupazione in tanti modi vagamente patologici, ma anche piuttosto divertenti.
Io, per esempio, pur di sentirmi attiva, ho finito per improvvisarmi critica letteraria… J
Ecco, la scommessa di questo nuovo spazio è di raccontare gli stratagemmi e le piccole commedie che quasi tutti inscenano per riempire le loro giornate, mentre aspettano e sperano un di trovare un lavoro. La speranza, invece, è di non risultare noiosa o strappalacrime!

Posterò i racconti il lunedì mattina, così magari i miei pochi lettori che hanno già un lavoro cominceranno la settimana col buon umore.
La rubrica si chiamerà “Giorni e nuvole”, come un film di Soldini che non mi è piaciuto particolarmente, ma che parlava proprio di lavoro e disoccupazione, e, se non ricordo male, aveva un lieto fine.

Bene, che giorno è oggi? Lunedì? Allora cominciamo!

sabato 19 maggio 2012

Incursione nelle incursioni musicali


La tecnologia è una cosa meravigliosa. Nonostante siano dispersi in svariate località europee, a  pochi mesi dall’uscita del loro primo album (gratuitamente scaricabile qui), Fede e Giorgio hanno risposto a qualche domanda per Nefelomanzia.
Spero che per questa giusta causa mi verrà perdonata una piccola incursione delle incursioni musicali :)


 Storia di un nome

Dare il nome a un disco è sempre stato il mio sogno.
Dev’essere per la mia mania di trovare una definizione a tutto. In ogni caso, per una volta, è bello poter raccontare di come il sogno si sia fatto realtà.

È una sera di gennaio, all’inizio del 2011.
Incontro mio cugino Fede sui Navigli. Tra resoconti di vita e propositi per l’anno nuovo, Fede mi racconta che sta lavorando con il suo amico Giorgio a un disco nuovo: le idee sono tante e buone, e stanno prendendo la forma di un vero e proprio concept album. La cosa mi entusiasma, faccio altre domande.

“Sembra una fiaba – gli dico – perché comincia in modo cupo, ma finisce bene.”
“Già, una fiaba. Perché non ci scrivi su una fiaba?” Mi chiede.
E perché no, rispondo io, come sempre.

Davanti alla nostra birra, pensiamo ai personaggi, al perché al percome, e soprattutto (fa anche rima) al nome: Lo scorpione e la libellula.

Poi le cose ovviamente si sono fatte lunghe: dopo la fiaba, ci sono state le illustrazioni bellissime di Davide, le registrazioni, le collaborazioni (il piano di Un bel giorno, per esempio, è di Francesco, fratello di Fede) l’eterna fase del mixaggio… Ma alla fine, da qualche mese, il disco è pronto, gratuito, e secondo me davvero meritevole.

Non fatevi ingannare dalle battute velocissime e dalle rime: queste poche tracce costruiscono un percorso serio, pieno di spunti profondi.
A dir la verità, tutt’altro che una fiaba.

GIULIA: Ascoltando l'album, l'impressione è quella di seguire un percorso. Qual è il filo rosso di questo percorso? Detto altrimenti, quali sono i temi forti del disco, e come si sviluppano?

OLL: Il primo pezzo post-prologo è “HuLiHuTu”, parafrasi modesta di una confusione snervante. Il viaggio che porta all'ultimo brano pre-epilogo si svolge di notte e sfocia nella placidità dell'alba di un bella giornata. Il giorno in cui vorremo fare un disco così sarà un bel giorno.

GIULIA: Qual è la vostra traccia preferita? Come e quando è nata?

OLL: Beh, sicuramente “Un Cantastorie (analisi transazionale)”. È l'unico brano in cui non rifaremmo nulla e per cui non soffriamo di rimorsi da post-prestazione. “Un Cantastorie (acquisto del caleidoscopio)” ha preso vita a bordo dell' ATM linea 324, “Un Cantastorie (credito insufficiente)” in studio da Giorgio. L'intermezzo “Un Cantastorie (analisi transazionale)” si è creata da sé... mentre ci rendevamo conto che non ci sarebbero bastati soldi per acquistare un caleidoscopio.



lunedì 14 maggio 2012

Recensione #10: Il lato sinistro del cuore

Un ammasso disordinato


Tutto è cominciato molti anni fa, ed è andato avanti fino al mese scorso. Di Lucarelli mi parlavano tutti: dai professori all’università, ai colleghi al lavoro. Lo conoscevano gli amanti dei libri e dei fumetti, e anche quelli che semplicemente guardavano la tv. Tutti tranne me.
Chiunque abbia letto almeno un altro dei miei post può immaginare come vada avanti questa storia: la mia curiosità si accende, ma non si attiva, fino al giorno in cui una improbabile serie di eventi (in questo caso una vacanza immeritata, dei piacevoli ricordi di gialli letti in spiaggia, e un fidanzato che ha in casa proprio quello che stavo cercando) mi mette in condizione di collocare anche questo autore nel mio personalissimo e totalmente disordinato bagaglio culturale.
Al termine di questa particolare indagine, però, mi permetto di sconsigliare ai miei lettori di imitarmi.

Su Lucarelli come autore non ho niente da ridire: si vede che è uno che sa raccontare. Sa creare il mistero e l’ansia, sa far ridere, sa essere ironico, sa stupire. A istinto, direi che rende meglio nei romanzi che nei racconti brevi, ma non avendo letto nessun romanzo non vorrei sbilanciarmi.
Ma infatti, qui il problema non è l’autore, ma il libro.


Il lato sinistro del cuore è la raccolta di alcuni dei suoi racconti. A quanto pare (lo leggo dal retro della copertina e dall'introduzione), l’autore ha operato una spietata selezione tra i suoi scritti che non sono diventati romanzi/film/fumetti/trasmissioni televisive o altro, per propormi un accattivante concentrato della sua produzione. Ma forse già qui dovrei pormi una domanda: se Lucarelli stesso si definisce un romanziere, e tende a trasformare gli spunti brevi in testi più articolati, non sarà che questi racconti sono un po’ dei refusés, per non dire degli scarti?
La faticosa lettura di questi più di cinquanta racconti, per un totale di più di 350 pagine, mi ha dimostrato che è proprio così.
Sia chiaro, alcuni sono davvero riusciti (Julien, Garganelli al ragù della Linina, Cornelius, giusto per citarne qualcuno); ma molti altri potevano davvero rimanere nel dimenticatoio (ecco qualche altro esempio: La notte in cui mio nonno diventò un lupo mannaro, Il gatto, Etienne...). Il risultato? Un ammasso raffazzonato di cose troppo diverse.

Ma allora, mi chiedo, perché mettere insieme un libro come questo? Credo che la risposta sia una sola, e che sia anche molto semplice: per guadagnare.
Altrimenti, sono sicura che la qualità del prodotto sarebbe stata un pelino più alta.

Una delle poche cose che ho imparato all’università è che, in una raccolta, i testi vengono riuniti secondo uno o più criteri che danno una forma all’opera, e forniscono chiavi interpretative ai lettori. Bene, io qui non trovo nessun criterio; neanche quello della completezza, visto che l’autore stesso mi dice per comporre questo libro ha preso in esame quasi tutta la sua produzione, e che qualcosa potrebbe anche essergli sfuggito. Come dire che lui e i suoi curatori non si sono presi neanche la briga di fare un controllino, e si sono limitati ad affastellare un elenco troppo lungo di testi più o meno interessanti senza nemmeno preoccuparsi di sottoporli a un editing decente (probabilmente ci sono meno refusi nella mia tesi di laurea, che è tutto dire). 

Se trovassi un prodotto così scadente nel catalogo dell’ultima casa editrice suburbana, probabilmente mi innervosirei, e direi che c'è un motivo se i piccoli editori oggi non sopravvivono. Ma da Einaudi, e al prezzo di copertina di 13 euro, sinceramente mi sembra un furto.

Mi si conceda infine una considerazione generale: nel delirante panorama culturale contemporaneo, in cui qualunque curiosità può essere sfamata in due clic, e in cui chiunque può costruirsi la cultura eclettica o settoriale che vuole, quello che manca ai lettori non sono gli stimoli, ma i prodotti di qualità. Se anche una casa editrice con pretese culturali come la Einaudi (che poi è sempre Mondadori, ma questa è un’altra storia) rinuncia al suo ruolo, e si limita a stampare roba senza criterio e senza attenzione, l’editoria può anche smettere di esistere. Poi però non ci si lamenti se le persone non sanno più distinguere un buon libro da un ammasso di parole. 

mercoledì 2 maggio 2012

Recensione #9: Quando ci batteva forte il cuore


La testimonianza di un bambino grande


Confesso che covo questa recensione da più di una settimana. Avrei voluto scrivere a caldo, ma non ero sicura delle mie impressioni, e così ho lasciato scorrere i giorni (e poi la vita balneare degli ultimi giorni non mi ha aiutato a vincere la pigrizia). Ora però è tempo di affrontare questo scoglio (anche perché sto per finire un altro libro, e non vorrei mai accumulare degli arretrati…).

Quando ci batteva forte il cuore è un libro impegnativo e coinvolgente, ed ha sicuramente dei grossi meriti.

Per prima cosa – come dichiara il narratore stesso nella conclusione del romanzo – rende testimonianza di un episodio tragico e troppo spesso dimenticato della storia italiana: quello del sofferto passaggio dell’Istria alla Jugoslavia, con tutte le atrocità connesse (in particolare, i massacri delle foibe).

È la storia di un popolo abbandonato dalla sua nazione e costretto ad arrendersi alla dittatura comunista. Ma è anche la storia di una famiglia (una mamma battagliera, un padre tenero e disilluso, e un figlio coinvolto troppo presto nel male del mondo) travolta e spezzata dalla storia. È il racconto di una separazione, di una fuga, di un viaggio della speranza. Di un legame invincibile come quello tra padre e figlio, temprato da mille prove e difficoltà. Un legame che sopravvive a tutto e a tutto dà la forza di sopravvivere.
Insomma, senza dubbio è un libro appassionante, che si legge tutto d’un fiato, sul tram, in vacanza, nelle pause di un lavoro casalingo.

Eppure, se devo dire la verità, non mi ha convinto del tutto.

Leggiucchiando qualche recensione online, ho trovato diversi elogi dello stile dell'autore: semplice, schietto, quasi giornalistico. Tutto vero. Tuttavia, se quello di non abbandonarsi alla retorica è sicuramente un grosso pregio, devo dire che c’è qualcosa nel modo di scrivere di Zecchi che frena il mio entusiasmo. Il suo stile piano non ha catturato pienamente la mia attenzione; al contrario, troppo spesso ha permesso ai miei occhi di scivolare sulla pagina… Certo, di fronte a episodi di questa gravità, i fatti non devono essere offuscati da uno stile ridondante; qui però ho avuto quasi l’impressione che gli eventi non trovassero la giusta rilevanza; un po' come se venissero presentati in sordina.

E poi c’è un altro punto debole, una specie di conflitto tra voce narrante e punto di vista.
Provo a spiegarmi: al tempo della storia, Sergio ha circa sei anni; una volta diventato adulto, decide che vuole dare testimonianza al dramma di Pola, e racconta la sua versione dei fatti. La pretesa, quindi, sembra quella di presentare gli eventi dal punto di vista del bambino di allora (prove ne siano l'uso della prima persona singolare e le analisi degli stati d'animo del protagonista). Il problema è che, raccontando, il narratore ha la capacità di analisi e introspezione di un adulto.
Insomma, è come se l’urgenza dell’autore di portare una testimonianza approfondita degli eventi gli impedisse di costruire un narratore pienamente credibile. Forse tutto poteva funzionare benissimo anche senza la pretesa di usare il punto di vista di un bambino… Così, invece, la sensazione è che il piccolo Sergio, che capisce benissimo sia i suoi sentimenti e le azioni di mamma e papà, sia un po’ poco realistico. Ed è un peccato.