domenica 18 novembre 2012

Recensione #28: Follie di Brooklyn


Una storia da film

Le mie amiche amanti di New York (non che io non lo sia; semplicemente non ho ancora avuto la fortuna di andarci) mi hanno consigliato le Follie di Brooklyn quest’estate. A dire il vero, nessuna delle due mi ha detto che era un capolavoro, ma entrambe hanno pensato che l’avrei apprezzato. 
Io mi sono fidata, e un paio di settimane fa l'ho attaccato.

Devo dire che è un libro che si fa leggere.
Gli ingredienti per una bella storia non mancano: un pensionato scottato dalla vita ma pronto a ricredersi, suo nipote libraio ex tassista ex studioso un po’ depresso, il suo principale eccentrico; una libreria stupenda, una bambina originale, un fanatico religioso, un falsario, un luogo dell’anima, una maestra innamorata; un sacco di truffe e inganni, un po’ d’amore e legami familiari da salvare, un discreto numero di colpi di scena…
Potenzialmente, direi un bel libro. Invece, se ci penso, c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che non mi ha convinto.

La prima nota che mi lascia perplessa è il protagonista/narratore. Questa cosa del burbero pensionato dal cuore tenero mi fa venire in mente la retorica alla Clint Eastwood a cui sono decisamente allergica. Ma questo potrebbe essere un problema mio. Anche perché, come personaggio, Nathan è forse un po’ scontato ma sicuramente ben riuscito, e soprattutto utilissimo all’economia del racconto. Attraverso il filtro sottile e spassionato dei suoi occhi, infatti, le altre figure si stagliano dal formicolio operoso e gioviale di Brooklyn in modo originale e anche abbastanza appassionante. Insomma, direi che posso passare oltre le mie personali insofferenze per certe redenzioni letterarie, e accettare il narratore. E posso soprassedere anche su qualche sbavatura della traduzione (un po’ troppi calchi dall’inglese, per conto mio), perché tutto sommato sono cose che capitano.

Quello che invece proprio non mi va giù è la sensazione che ho avuto leggendo le ultime cento pagine: la sensazione di non arrivare in nessun posto. Paul Auster mi ha portato in giro per un bel pezzo per le strade di New York, con sapienza mi ha introdotto in un intricato quadro di famiglia, e poi… poi niente. Il libro finisce e basta. Non c’è un messaggio, ma nemmeno una frase che ti resta dentro; non c’è nessuna urgenza dietro questa storia, solo un ingranaggio abbastanza ben costruito. E ora della fine il lettore se ne accorge.
Arrivi in fondo, e pensi che non è stato male, ma che tutto sommato potevi leggere anche qualcos’altro. O, forse meglio, che questa storia stava molto meglio in un film che in un libro. Come film, direi che avrebbe funzionato: in un film, una bella storia e un’ambientazione efficace mi bastano. Da un libro invece, vorrei qualcosa di più.  

Nessun commento:

Posta un commento