Vale. L’Australia
Ci penso ogni mattina, quando mi sveglio e mi alzo
cercando di non svegliare Paolo, che ha lavorato fino a ore assurde nel suo
centro sociale per liceali impegnati.
È paradossale perché, tecnicamente, la mia stanza è
quella in cui abito ora. E lo è stata sempre, tranne che per gli undici mesi,
quattro settimane e due giorni in cui ho dormito dall’altra parte del mondo. Eppure
solo lì, in Australia, ho sentito di abitare in uno spazio che potessi definire
mio. Forse dipende dalla convivenza
forzata e vagamente disagevole con mio fratello, forse dalle incursioni
invadenti di mia madre e del suo roboante aspirapolvere delle 8 di mattina, non
lo so. Ma la verità è che, da quando sono tornata, aprire gli occhi tra queste
quattro mura, e forse in questo emisfero, mi sembra ogni giorno più difficile.
Mi vesto nel bagno pieno di creme e dentifrici e
medicine dei miei, e valuto con tristezza che là avevo anche un bagno tutto per
me, con piastrelle luminose e una finestrella rotonda sul mare.
Esco dalla doccia e constato che non so come ho
fatto tardi, ma che tanto non ho niente da fare; così mi ricordo che là invece,
nonostante le mille occupazioni, ero sempre puntuale. Che non avevo mai nessuna
fretta e nessuna ansia.
Mentre aspetto che salga il caffè, accendo il computer.
Potrei dire che è per cercare lavoro, o per guardare le notizie e tenermi
informata, ma la verità è che lo faccio per noia. Non posso neanche dire di essere
curiosa. È per noia, che non riesco mai a finire di leggere gli articoli; per
noia, che spio per interi quarti d’ora le vite degli altri su Facebook. La mia
dipendenza da Internet, ormai, sta assumendo proporzioni patologiche. Eppure
non sono mai stata una che passava le giornate al pc. A Sidney, per esempio… Ma
non mi va di deprimermi ancora. Scaccio decisamente il ricordo di quella routine
piena e soddisfacente e do inizio al mio tour quotidiano di visite
telematiche. È che concentrarsi davanti al computer è difficile. E poi la
connessione è lentissima, e mentre si caricano le pagine vuoi non andare a
guardare se per caso – e in realtà non è quasi mai così, nonostante i più di
600 amici – qualcuno ti ha scritto?
Scorro svogliatamente le numerose offerte di stage
full time non retribuiti di un sito qualunque; sto già per chiudere e passare ad
altro, quando due magiche paroline attirano la mia attenzione: rimborso spese. Il cuore ha un sobbalzo,
quasi non ci credo. In un attimo divoro l’annuncio e faccio due calcoli: sei
mesi a 500 euro, nell’ufficio stampa di una multinazionale a… Torino? In
effetti è un po’ lontano, ma tentar non nuoce. Invio curriculum e lettera di
presentazione e per un attimo mi sento sollevata come se avessi buone
possibilità di dare una svolta alla mia vita. Come se questa proposta non fosse
un insulto, come se non mi ricordassi che dall’altra parte del mondo il lavoro perfetto
per me c’era e c’è ancora, e che altri ragazzi in questo preciso momento stanno
seduti nel mio ufficio e abitano la mia casa e dormono nella mia stanza…
Bene, forse è il caso di sospendere temporaneamente
la ricerca. Con lentezza esasperante riesco ad abbandonare la mia postazione
informatica, giuro che per stamattina con la tecnologia ho chiuso, e mi decido ad
affrontare il tragitto verso il supermercato. In fondo – come mia madre non manca di ricordarmi ogni
mattina – visto che le sono tornata sul
groppone e che non accenno a contribuire in alcun modo alle spese della
famiglia, posso rendermi utile almeno andando a far la spesa.
Ma anche questa incombenza è, proprio come il
risveglio, un’abitudine più che fastidiosa.
Quelli che dicono che Milano è una grande città
probabilmente non sono di Milano. E probabilmente non abitano nella mia zona. Da
quando sono tornata, ho l’impressione che tutti mi conoscano, mi fermino, e mi
chiedano cosa sto facendo, ora che finalmente sono a casa. Con le loro inutili chiacchiere
superficiali, mi costringono a confessare ogni giorno che la studentessa
modello estrosa e simpatica, quella che tredici mesi fa è partita per
l’Australia in cerca di avventure, si è trasformata in una disoccupata
venticinquenne che si trascina per la strada in tuta, carica di squallidi
sacchi della spesa.
Oggi poi il destino sembra particolarmente crudele.
Va bene, dei capelli sporchi e del look trasandato sono assolutamente
responsabile, ma l’incontro con la mamma della migliore amica delle medie (che
ovviamente ha fatto la Bocconi, non ha perso tempo a scoprire le bellezze degli
altri continenti, e si è accaparrata un buon contratto in un’azienda sicura)
veramente mi sembra una beffa. Non la vedevo da anni, non sono neanche sicura
che abiti più in zona, cosa ci fa nel mio supermercato? Evito il contatto,
rifugiandomi nel banco surgelati. Ma qui, intenta a valutare con morbosa
attenzione alcune irrisorie offerte sui 4 Salti in padella, vedo la nuova
fidanzata del mio ex. Quello che ho lasciato prima di partire, che nonostante
si sia consolato con questa ragazzina dai capelli ossigenati e l’aria timida,
continua a mandarmi mail d’amore. E sospetto che la giovane dark qui accanto lo sappia e che mi spii, perché i suoi
commenti su Facebook tradiscono una certa insofferenza per quelle che lei
definisce astiosamente le “australiane”… Superato lo sconforto, e maledetto
nuovamente questo inferno, decido che il male minore è sicuramente la mamma
dell’amica d’infanzia. Riemergo dal banco frigo e vado incontro al mio destino,
tuffandomi con indiscutibile masochismo nella sua permanente congelata, e
iniziando volontariamente la conversazione meno interessante della vita.
Bentornata, come stai, cosa stai facendo. Rispondo
al suo assalto di domande cercando di non sembrare disperata, ma evidentemente
non ci riesco granché bene: nei suoi occhi tirati, dietro gli occhiali da sole
che inspiegabilmente indossa anche al chiuso, leggo addirittura un’ombra
rivoltante di pietà. Perfetto, proprio quello che volevo evitare.
Ma in realtà, devo dire che la casalinga rampante
per una volta si comporta meglio di tanti altri esemplari del quartiere. Invece
di propinarmi qualche consiglio buonista o impraticabile su come trovare un
lavoro sicuro e ben pagato in tre semplici mosse, mi racconta che la sua vicina
di casa cerca una ragazza che insegni un po’ di inglese alla sua svogliata
figliola tredicenne. Io sono praticamente madrelingua, no? Quindi potrei
provarci, no? Perché non le do il mio numero? Così poi mi fa chiamare.
Fantastico, stasera la vicina mi telefonerà sicuramente. Conclude la sua
surreale apparizione auspicando un riavvicinamento sotto forma di aperitivo tra
me e la sua Rossella, che lavora sempre troppo, e se ne va, che sono già le
dodici e dal macellaio ormai non ci sarà più niente.
Io rimango sola in mezzo al corridoio. Volto le
spalle ai surgelati e stranamente mi sento un po’ meglio: l’Australia continua
a sembrare un miraggio, ma se non altro, forse, domani eviterò il supermercato.
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