lunedì 11 giugno 2012

Giorni e nuvole #4


Adele. Il volontariato

In fondo sapevamo che sarebbe stato così.
Io, per lo meno, ero pronta. Me l’avevano detto, e io ci avevo creduto: la laurea in Antropologia non garantisce un lavoro a nessuno.
Ci ho creduto, e ho deciso di farlo lo stesso. Perché di rinunciare al mio sogno prima dei vent’anni mi sembrava veramente troppo triste.
E in fondo neanche adesso, con il mio pezzo di carta tra le mani e nessun fondo a cui attingere per portare avanti le mie ricerche sui Pigmei, mi pento della decisione.
Si tratta solo di organizzarsi, e le giornate possono essere soddisfacenti anche se non hai un lavoro.

Oggi, per esempio.
Sono le 7.53, ho esattamente sette minuti per la colazione (caffè biscotti e succo, ho bisogno di energia, sarà una giornata lunga), dodici minuti per la doccia, e ventitre per il mio cane. Lo riporto a casa, tempo di prendere la borsa, chiudere casa e sono le 8.30. Fino a qui sono in perfetto orario. Prendo l’autobus al volo, e comincio la lunga trafila degli impegni di oggi.
Alle 9.15 arrivo al centro, appena in tempo per aprire. Due rifugiati mi aspettano davanti alla saracinesca chiusa. Ricaccio la compassione dietro un bel sorriso, e prima di qualunque frustrante trafila burocratica li porto a bere un buon caffè.
Alle 12.15, dopo tre pratiche per il riconoscimento del diritto d’asilo, due tisane e molte chiacchiere benefiche, sono pronta per andare. Saluto i rifugiati e vado a prendere l’autobus, stavolta verso Città Studi, per il corso di letteratura russa. Praticamente c’è questa ragazza madrelingua bravissima, Anja, che tiene una specie di seminario per tutti quelli a cui interessa Dostoevskij… e a me Dostoevskij interessa eccome. E poi è pure gratis.
Mi fermo dal panettiere, pago due euro per una focaccia fredda, che mi gusto tranquillamente sui seggiolini fuori dall’aula, pensando che se avessi un lavoro stabile tutto sommato non avrei tempo di studiare Dostoevskij. Una deve saper vedere i lati positivi di tutte le situazioni, no? Ed è esattamente quello che sto facendo io. Io li odio quelli che si piangono addosso e si lamentano del fatto che non hanno niente da fare. Di cose da fare ce ne sono sempre anche troppe. Ah, ecco l’insegnante, finalmente si comincia.
Dopo la lezione, mi fermo a parlare con Anja. Ho ancora una domanda sui Fratelli Karamazov, e poi almeno venti su di lei: cosa l’ha spinta a venire in Italia a studiare, come si trova? E come mai tiene un corso gratuito di letteratura russa? Ovviamente si finisce a discutere di politica e di precariato. Ovviamente mi accaloro, e non mi accorgo che sto facendo tardi. Alle quattro devo essere al teatro per il corso di teatro dei bambini. Faccio teatro da quando ho dieci anni; mia zia era un’attrice abbastanza famosa e mi ha insegnato tutto. Quest’anno, con la mia compagnia, stiamo allestendo uno spettacolo su Carver che mi piace molto. È un lavoro sullo straniamento prodotto dal benessere eccessivo della società occidentale. Mi dà tantissimi stimoli, anche per il confronto coi rifugiati. Anzi, devo ricordarmi di parlare col regista della possibilità di collaborare con loro, per arricchire il testo di qualche suggestione.
Be’ comunque ora devo concentrarmi sui bambini. Sono le 16.06, sei minuti di ritardo sono ancora accettabili. Loro sono già tutti lì, con le calzine antiscivolo sul pavimento freddo del palco. Hanno voglia di cominciare, e anch’io ne ho parecchia.
Esco dal teatro che è già buio. Mi sono fermata a parlare due ore col direttore, preoccupatissimo per la crisi e il calo degli abbonamenti. Cercava degli stagisti… gli ho detto che se mi viene in mente qualcuno lo chiamo. Ora però devo correre: sono le 19.33, devo andare a casa, farmi una doccia, portar fuori il cane e intanto chiamare mio padre, e poi uscire, perché oggi è il primo giovedì di primavera, e proprio non vorrei perdermi il Critical Mass.
Poi non sempre tutto va come dovrebbe, ma non importa. La telefonata con mio padre è una tragedia di convenevoli e recriminazioni: lui continua a non capire cosa sto facendo nella vita, vorrebbe che tornassi a casa con loro, che entrassi nell’azienda di famiglia… insomma le solite cose. Solo che per dirle, stasera ci ha messo mezzora buona e mi ha fatto fare tardi. Mi sono persa l’inizio del giro, per ritrovarlo ho dovuto chiamare ottomila persone, così ho finito i soldi nel telefono, che vuol dire che chiamerò col 4888 per almeno due settimane, perché questo mese ho da pagare l’affitto, e non esiste che spenda venti euro anche per il telefonino.
Comunque, a parte il credito esaurito, tutte queste telefonate a qualcosa sono servite: ho risentito Matteo, che non beccavo da due mesi, e ci siamo accordati per prenderci una birra alle undici e mezza. Sono contenta, proprio non sapevo cosa fare questa sera.

«Allora, ti sei laureata?»
Matteo mi guarda oltre la birra, con i suoi occhi brillanti nella sera. L’anno scorso, quando abbiamo cominciato a uscire, mi piaceva parecchio.
«Sì, e tu?»
Poi però mi aveva annoiato: mi ricordo che, oltre a quell’aria così alternativa e interessante, non avevo trovato nessuna sostanza.
«Io anche. Adesso sto cercando…» Abbassa gli occhi. Mi sa che si vergogna; infatti cambia subito argomento, e mi chiede cosa faccio io.
«In realtà un bel po’ di cose: collaboro con un’associazione di rifugiati, tengo un corso di teatro per bambini, vado ancora alle riunioni del quartiere…»
Mi sorride, vagamente divertito: «Insomma, tutto volontariato no?».
Ma come volontariato? Io coltivo i miei interessi, e questo figlio di papà mi dice che faccio volontariato? Io mi pago mezzo affitto facendo la dog sitter.
Chissà perché, però, adesso non mi sembra che il figlio di papà si vergogni più molto. Mi guarda negli occhi, e mi costringe a dargli ragione: «Eh che ci vuoi fare, di questi tempi…»
Mentre la butto sulla lamentela qualunquista che tanto odio, mi ripeto che lo faccio solo per non umiliarlo. Già me le immagino, le sue giornate di niente, perse a lagnarsi del sistema, esattamente come sta facendo con me adesso. Già me lo immagino: tra massimo tre mesi, dopo tante belle parole, entrerà nello studio di commercialista di suo padre.
Matteo blatera e io penso che in fondo lo sapevamo fin dall’inizio.









1 commento:

  1. ho da dire due cose su questa storia (che mi è piaciuta e mi ha fatto pensare più delle altre):
    1: è interessante la riflessione sull'idea di volontariato. è vero che nella nostra società si confonde il concetto di attività non retribuita con il volontariato, che, secondo me, merita di non essere mescolato con altro.
    2: sinceramente non amo la figura della protagonista. Apprezzo il suo coraggio nel voler correre un rischio per realizzare il suo sogno, ma mi sembra ancora immatura. è vero che cerca di vivere la sua situazione complessa cercando di non lamentarsi sterilmente contro il sistema, ma certe cose sinceramente non le condivido. Il fatto che lei si paghi solo metà affitto (e che quindi dipenda ancora dal padre) e rifiuti quasi con stizza le proposte per un lavoro concreto conoscendo la difficoltà nel trovare lavoro nell'ambito di antropologia, mi sembra segno di rifiuto della propria situazione.
    Apprezzo però la sua capacità di comprendere la bellezza e soprattutto la pienezza che una giornata senza lavoro può avere. Mi sembra dunque che questa Adele abbia tutte le carte in regola per sbocciare come persona nella sua interezza, dal momento che sa rischiare e sa vivere pienamente la sua vita, ma le manca un po' di concretezza. Inoltre non fa neanche un colloquio lavorativo per sbloccare la sua carriera lavorativa.
    Insomma, rispetto al protagonista della vicenda della settimana scorsa, mi pare impossibile un paragone alla pari

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