lunedì 4 giugno 2012

Giorni e nuvole #3


Luca. La bicicletta

Mi chiamo Luca, ho 31 anni e sono un fallito.
Chiudo la porta dell’aula senza sbatterla. Vorrei prendermela col professore, ma non ci riesco. Certo, lui ci ha messo del suo, e il sorrisetto che ha fatto quando ha visto la mia età e la mia media sul libretto, il sorrisetto di chi pensa che faccio talmente pena che non merito neanche di essere compatito, non ha aiutato… Ma la verità è che il problema sono io: io che non ho ripassato a dovere, perché l’appello cadeva proprio la settimana dopo l’inventario, io che la sera ero stanco e pensavo ad Adele, che tanto con uno come me non ci starà mai. Io che, non diciamo cazzate, semplicemente non ci sono portato: non sono fatto per la Procedura Penale, né per lo studio della Giurisprudenza, né per lo studio in generale.
Io che non ho neanche tempo di lamentarmi, perché devo correre in negozio.

In negozio non entra nessuno da mezzora, e da mezzora mi sto piangendo addosso. Forse dovrei davvero lasciar perdere questa cagata dell’università. Ormai perfino gli assistenti che mi interrogano sono più giovani di me.
«Oggi mortorio, eh?»
Giovanna, la responsabile che conosce a memoria le debolezze di noi dipendenti, mi sorprende alle spalle e non ci mette né uno né due a capire che l’esame non è andato.
«Dai lasciamo qua il novellino, e andiamoci a bere un buon caffè dei nostri.»
Mi porta fuori senza dire una parola, sorridendo al sole incerto di questa tarda primavera; contenta solo lei sa per che cosa.
Ordina un succo alla pesca, si siede lasciandomi il posto all’ombra, e mi punta addosso i suoi occhi verdi inquisitori.
«Allora?»
Mi accendo una sigaretta. Allora cosa? Vuole proprio che le spiattelli davanti tutti i miei fallimenti? Non credo che questo mi farà sentire meglio. Ma siccome non mi va di discutere, comincio a raccontare svogliatamente; subito però mi interrompo: non mi sta ascoltando. Sguardo fisso, sorriso ebete; non capisco, non ha più quindici anni, e sono abbastanza sicuro che non si sia innamorata ieri di suo marito.
Prima che possa chiederle cosa succede, mi sorride: «Sono incinta.»
Mentre biascico le mie stentate congratulazioni, penso che Giovanna non dice mai niente per niente. Se si confida con me è perché ha in mente qualcosa.
E infatti, dopo avermi lasciato educatamente concludere le mie formalità, lancia il sasso che potrebbe cambiare la mia vita.
«Vorrei lasciare a te il negozio, durante la maternità.»
Cosa?
«Pensavo di fare il tuo nome alla sede centrale già domani. Certo, sarebbe per meno di un anno, ma credo che possa essere una bella occasione per farti notare nelle alte sfere. Senza contare i vantaggi economici…»
Ora penso che vuole stordirmi per convincermi ad accettare, penso che è una buona venditrice. Penso solo che se fa il mio nome è perché in qualche modo le conviene. Lei nel frattempo cerca di aumentarmi l’autostima, spiegandomi che sono il suo dipendente più esperto, che sono bravo in quello che faccio, che sono disponibile coi clienti, preciso, che si fida solo di me.
Alla fine trovo il modo di ribattere che però sarebbe un full time. È un impegno grosso, un full time.
Lei sospira, non saprei dire se per sincera comprensione o per pietà; ma quello che dice dopo in ogni caso mi sembra un consiglio onesto: «Forse sarebbe il caso che tu valutassi l’idea di lasciarla perdere, l’università.»
Ne parliamo ancora cinque minuti, le prometto di pensarci seriamente e di darle una risposta domani.
Torniamo a lavorare, e ovviamente il negozio a questo punto è pienissimo, perché è sempre così: quando vorresti distrarti, non hai niente da fare, ma quando invece vorresti decidere in santa pace della tua vita, frotte di coglioni vogliono consigli su degli inutili giochi da tavolo.
Alle sette e mezza finalmente sono fuori.

Salgo sulla bici e filo a casa.
Ma poi, sotto il portone, tiro dritto: proprio non me la sento di salire. Cosa dirà mia madre, cosa diranno gli amici, cosa dirà Adele? Sono pronto a diventare un lavoratore non laureato? In fondo perché no, cos’è che mi trattiene? È solo la paura di deludere le loro aspettative, oppure non ho le palle di prendere una decisione definitiva? Certo, un pezzo di carta al giorno d’oggi fa sempre comodo… Però, guardiamoci in faccia, io non sarò mai un avvocato.

La Darsena scorre piano alla mia destra, riflette un tramonto tempestoso di nuvole rosa e nere. Sarà quasi ora di cena; è ora di tornare, e devo pedalare in fretta se voglio arrivare in tempo. Pedalare in fretta. Sorrido, e penso che forse quest’ultimo pensiero è una metafora della mia condizione; in fondo, ho sempre saputo di essere una persona pratica, più che uno studioso. Uno che pedala. Anche quando da piccolo i miei mi dicevano; «Hai voluto la bicicletta?» eccetera, a me l’idea di pedalare non sembrava affatto male. Io sono uno che pedala.
All'improvviso, so che cosa dirò a Giovanna domani. Giro la bici e me ne torno a casa: stasera non esco, da domani devo lavorare tutto il giorno.





2 commenti:

  1. Racconto bello e scritto bene. Per ora è quello che mi è piaciuto di più perché nella vita l'università e lo studio non sono tutto. Io ho capito che l'università è la strada adatta a me, ma mi rimarrà sempre nel cuore la frase "Anche quando da piccolo i miei mi dicevano; «Hai voluto la bicicletta?» eccetera, a me l’idea di pedalare non sembrava affatto male. Io sono uno che pedala."
    Tutti pedaliamo, a modo nostro :)

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  2. Grazie mille cara :)
    Sono felice che qualcuna delle mie frasi resti impressa nei miei fan!
    E poi lo sai che quando si parla di biciclette sono un'esperta :)

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