martedì 15 gennaio 2013

Recensione #32: Un polpo alla gola


Secondo (fortunato) incontro col fumetto


Nessuno guarisce dalla propria infanzia…

Il mio amico Bebo (che figura tra i citati amici appassionati di fumetti e che, non per niente, nella vita organizza le mostre dello WOW) non perde occasione per cercare di indottrinarmi (o istruirmi?) sulla sua grande passione. Così, l’altra sera, memore di un mio vago interessamento al fenomeno Zerocalcare (per chi non l’avesse mai visto, questo è il suo blog), si è presentato a casa mia con un’ottima bottiglia di Moscato in una mano, e Un polpo alla gola nell’altra. Ho cominciato a leggerlo la sera stessa, incuriosita, ma anche scettica, come sempre davanti ai successi conclamati.
Devo dire che, come già Portugal qualche settimana fa, è stata una lettura davvero piacevole.

“Nessuno guarisce dalla propria infanzia”. Ecco l’assunto fondamentale della trama, portato avanti con la diligenza di una dimostrazione di geometria, nei tre episodi che compongono questo gustoso grafic novel.
L’infanzia come una malattia crudele che lascia segni indelebili sull’adolescenza e poi sulla vita adulta. Queste, a grandi linee, le tappe della narrazione: prima, i meschini meccanismi e tradimenti dell’infanzia; poi l’adolescenza insulsa; infine, la maturità (be’, non sono sicura che per i protagonisti si possa parlare di maturità… diciamo i trent’anni) incolore. Che i traumi dell’infanzia condizionano la vita adulta non è una novità, e soprattutto non è una verità divertente. A meno che a testimoniarlo non sia una coscienza a forma di David Gnomo. O che a rappresentare i misfatti dell’infanzia non sia un enorme polpo attaccato alla gola del protagonista.
 
Protagonista dell’avventura è Zero stesso, che, con i suoi amichetti delle elementari e poi del liceo, si trova coinvolto in una serie di vicende che coinvolgono teschi, sparizioni, archivi porno, ambigui giardinieri e gameboy sequestrati. Ma a dir la verità la storia è piuttosto pretestuosa. Convincente è piuttosto il modo in cui viene raccontata: un modo brillante, pungente e originale, che passa senza filtro dall’immaginario dell’autore alla pagina (un solo esempio: la madre del protagonista ha le sembianze di una gallina stile lady Cocca, stupenda e credibilissima). Insomma, quello che potrebbe essere il solito psicodramma dell’autocommiserazione travestita da ironia, è invece una storia acida e senza morale. Demenziale quanto basta, qualche inflessione romanesca che non fa mai male, ed ecco fatto: ti ritrovi in mano una vicenda divertente,  e realistica, e che per una volta non ha la pretesa di svelarti il senso della vita o di sovvertire il sistema.

È soltanto un po’ crudele, come ogni storia di bambini che si rispetti.

2 commenti:

  1. Se continui così finirai col convincermi a leggere i fumetti! Io ho letto solo i primi due numeri di "the climber" e l'ho trovato piuttosto scarso. Troppi stereotipi giapponesi che mi ricordavano la mia infanzia (appunto) bruciata davanti ai cartoni giapponesi.

    Guarda però che noi lettori del blog lo sappiamo che un fumetto si legge molto più rapidamente di un libro... Non pensare quindi di avere la coscienza a posto pubblicando tante relazioni su fumetti!

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  2. Oh Laura, non ti sfugge niente! Comunque tranquilla, ho ancora una recensione di un romanzo (che però non credo ti piacerebbe) da produrre :)

    Quanto alle tue riserve sui manga, sappi che le condivido. E sia questo che Portugal sono tutt'altra cosa!

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