Per lettori indiscreti
Bene, è giunto il momento di saldare i miei debiti
con il 2012.
Ho ancora due recensioni arretrate, e quale momento migliore per dimezzarle di un pigro assolato sabato
mattina?
La mia sfida di oggi è Lettera al padre di Franz Kafka. Dico sfida, perché non è facile
raccontare un libro cupo, senza dubbio onesto, e per questo a tratti anche
noioso, come questo.
Me l’hanno portato i miei, come regalo da Praga.
Caso vuole che, proprio in quel periodo, stessi leggendo Follie di Brooklyn, in cui (non mi ricordo già più perché) si racconta il commovente aneddoto dello
scrittore ceco che alleviò con una lunga serie di lettere il dolore di una
bambina per la perdita della propria bambola.
Conciliare questa immagine di tenerezza con quella,
liceale, dell’affascinante autore della Metamorfosi non era impresa da poco. Così, nell’impossibilità di telefonare all’autore per
chiarire ogni dubbio, la lettera/confessione che egli stesso scrisse al padre
mi è sembrata lo strumento più indicato per sciogliere la mia curiosità.
In un certo senso è stato così, ma devo dire non
in modo soddisfacente.
Il testo è stato redatto da Kafka nel 1919, a
seguito di una serie di strazianti contrasti con il padre (che, tanto per dirne una, aveva in ogni modo ostacolato il suo matrimonio). L’intento dichiarato
è quello di: «Tranquillizzare entrambi e renderci più facile il vivere e il
morire». In realtà, non solo la lettera non è affatto “tranquillizzante”, ma,
una volta completata, non fu neanche consegnata al destinatario. Da qui, la
tentazione, a quanto pare seguita da diversi critici, di considerarlo un
esercizio letterario, più che una testimonianza autobiografica.
Non sono d’accordo con questa interpretazione. I contenuti
sono autentici, brucianti; lo si capisce anche dall’ossessività con cui vengono riproposti. Tutt’altro che un passatempo per letterati. Se un po' di retorica c'è,
probabilmente è perché l’argomento era per il povero Franz particolarmente
doloroso.
A maggior ragione, però, qualche problema di lettura
rimane. In effetti, più che di lettera, sarebbe giusto parlare di sfogo. Lo sfogo
di un figlio ferito e schiacciato da una figura paterna prevaricatrice. Lo sfogo
sincero, amaro, drammatico di un grande scrittore. Ma pur sempre uno sfogo. Vale
a dire, qualcosa che uno scrive per se stesso.
Per questo, dicevo che la lettura non è stata
soddisfacente: il testo non è stato scritto per un lettore, e quindi il lettore
si sente fuori posto. Un intruso invadente che legge un diario privato. O forse
si annoia soltanto, come si annoia chiunque leggendo il diario di uno sconosciuto.
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