Adele. Il volontariato
In fondo sapevamo che sarebbe stato così.
Io, per lo meno, ero pronta. Me l’avevano detto, e
io ci avevo creduto: la laurea in Antropologia non garantisce un lavoro a
nessuno.
Ci ho creduto, e ho deciso di farlo lo stesso.
Perché di rinunciare al mio sogno prima dei vent’anni mi sembrava veramente
troppo triste.
E in fondo neanche adesso, con il mio pezzo di
carta tra le mani e nessun fondo a cui attingere per portare avanti le mie ricerche
sui Pigmei, mi pento della decisione.
Si tratta solo di organizzarsi, e le giornate
possono essere soddisfacenti anche se non hai un lavoro.
Oggi, per esempio.
Sono le 7.53, ho esattamente sette minuti per la
colazione (caffè biscotti e succo, ho bisogno di energia, sarà una giornata
lunga), dodici minuti per la doccia, e ventitre per il mio cane. Lo riporto a
casa, tempo di prendere la borsa, chiudere casa e sono le 8.30. Fino a qui sono
in perfetto orario. Prendo l’autobus al volo, e comincio la lunga trafila degli
impegni di oggi.
Alle 9.15 arrivo al centro, appena in tempo per
aprire. Due rifugiati mi aspettano davanti alla saracinesca chiusa. Ricaccio la
compassione dietro un bel sorriso, e prima di qualunque frustrante trafila
burocratica li porto a bere un buon caffè.
Alle 12.15, dopo tre pratiche per il
riconoscimento del diritto d’asilo, due tisane e molte chiacchiere benefiche,
sono pronta per andare. Saluto i rifugiati e vado a prendere l’autobus,
stavolta verso Città Studi, per il corso di letteratura russa. Praticamente c’è
questa ragazza madrelingua bravissima, Anja, che tiene una specie di seminario
per tutti quelli a cui interessa Dostoevskij… e a me Dostoevskij interessa
eccome. E poi è pure gratis.
Mi fermo dal panettiere, pago due euro per una
focaccia fredda, che mi gusto tranquillamente sui seggiolini fuori dall’aula,
pensando che se avessi un lavoro stabile tutto sommato non avrei tempo di
studiare Dostoevskij. Una deve saper vedere i lati positivi di tutte le
situazioni, no? Ed è esattamente quello che sto facendo io. Io li odio quelli
che si piangono addosso e si lamentano del fatto che non hanno niente da fare. Di
cose da fare ce ne sono sempre anche troppe. Ah, ecco l’insegnante, finalmente si
comincia.
Dopo la lezione, mi fermo a parlare con Anja. Ho
ancora una domanda sui Fratelli Karamazov,
e poi almeno venti su di lei: cosa l’ha spinta a venire in Italia a studiare,
come si trova? E come mai tiene un corso gratuito di letteratura russa?
Ovviamente si finisce a discutere di politica e di precariato. Ovviamente mi
accaloro, e non mi accorgo che sto facendo tardi. Alle quattro devo essere al teatro
per il corso di teatro dei bambini. Faccio teatro da quando ho dieci anni; mia
zia era un’attrice abbastanza famosa e mi ha insegnato tutto. Quest’anno, con
la mia compagnia, stiamo allestendo uno spettacolo su Carver che mi piace
molto. È un lavoro sullo straniamento prodotto dal benessere eccessivo della
società occidentale. Mi dà tantissimi stimoli, anche per il confronto coi
rifugiati. Anzi, devo ricordarmi di parlare col regista della possibilità di
collaborare con loro, per arricchire il testo di qualche suggestione.
Be’ comunque ora devo concentrarmi sui bambini.
Sono le 16.06, sei minuti di ritardo sono ancora accettabili. Loro sono già
tutti lì, con le calzine antiscivolo sul pavimento freddo del palco. Hanno
voglia di cominciare, e anch’io ne ho parecchia.
Esco dal teatro che è già buio. Mi sono fermata a
parlare due ore col direttore, preoccupatissimo per la crisi e il calo degli
abbonamenti. Cercava degli stagisti… gli ho detto che se mi viene in mente
qualcuno lo chiamo. Ora però devo correre: sono le 19.33, devo andare a casa,
farmi una doccia, portar fuori il cane e intanto chiamare mio padre, e poi
uscire, perché oggi è il primo giovedì di primavera, e proprio non vorrei
perdermi il Critical Mass.
Poi non sempre tutto va come dovrebbe, ma non
importa. La telefonata con mio padre è una tragedia di convenevoli e
recriminazioni: lui continua a non capire cosa sto facendo nella vita, vorrebbe
che tornassi a casa con loro, che entrassi nell’azienda di famiglia… insomma le
solite cose. Solo che per dirle, stasera ci ha messo mezzora buona e mi ha
fatto fare tardi. Mi sono persa l’inizio del giro, per ritrovarlo ho dovuto
chiamare ottomila persone, così ho finito i soldi nel telefono, che vuol dire
che chiamerò col 4888 per almeno due settimane, perché questo mese ho da pagare
l’affitto, e non esiste che spenda venti euro anche per il telefonino.
Comunque, a parte il credito esaurito, tutte
queste telefonate a qualcosa sono servite: ho risentito Matteo, che non beccavo
da due mesi, e ci siamo accordati per prenderci una birra alle undici e mezza.
Sono contenta, proprio non sapevo cosa fare questa sera.
«Allora, ti sei laureata?»
Matteo mi guarda oltre la birra, con i suoi occhi
brillanti nella sera. L’anno scorso, quando abbiamo cominciato a uscire, mi
piaceva parecchio.
«Sì, e tu?»
Poi però mi aveva annoiato: mi ricordo che, oltre
a quell’aria così alternativa e interessante, non avevo trovato nessuna
sostanza.
«Io anche. Adesso sto cercando…» Abbassa gli
occhi. Mi sa che si vergogna; infatti cambia subito argomento, e mi chiede cosa
faccio io.
«In realtà un bel po’ di cose: collaboro con
un’associazione di rifugiati, tengo un corso di teatro per bambini, vado ancora
alle riunioni del quartiere…»
Mi sorride, vagamente divertito: «Insomma, tutto
volontariato no?».
Ma come volontariato? Io coltivo i miei interessi,
e questo figlio di papà mi dice che faccio volontariato? Io mi pago mezzo
affitto facendo la dog sitter.
Chissà perché, però, adesso non mi sembra che il
figlio di papà si vergogni più molto. Mi guarda negli occhi, e mi costringe a
dargli ragione: «Eh che ci vuoi fare, di questi tempi…»
Mentre la butto sulla lamentela qualunquista che
tanto odio, mi ripeto che lo faccio solo per non umiliarlo. Già me le immagino,
le sue giornate di niente, perse a lagnarsi del sistema, esattamente come sta
facendo con me adesso. Già me lo immagino: tra massimo tre mesi, dopo tante
belle parole, entrerà nello studio di commercialista di suo padre.
Matteo blatera e io penso che in fondo lo sapevamo
fin dall’inizio.