Un gentiluomo immobile
Mentre leggevo Il
grande Gatsby, pensavo che molto probabilmente la mia amica Giulia l’aveva
odiato (su quante delle mie amiche si chiamino Giulia, forse un giorno dovrò scrivere qualcosa).
Dopo molti anni di amicizia e confronti, ho imparato che
Giulia detesta una particolare categoria di libri, che di solito gli altri apprezzano:
sono i libri in cui il protagonista è molto realistico, e molto realisticamente
intrappolato in una situazione immobile (come Madame Bovary, tanto per fare un esempio).
Tralasciando la tenerezza che mi provoca il dinamismo della mia amica, dirò che Il grande Gatsby ha
in effetti tutti i numeri per innervosirla: c’è il clima annoiato e frivolo della
borghesia americana ai tempi del proibizionismo, con i suoi sprechi e le sue
feste fino al mattino; ci sono i personaggi statici e bloccati, che animano le serate per nascondere
il loro vuoto; c’è un narratore volenteroso e inetto, che racconta questo
ambiente senza riuscire a capirlo né a cambiarlo… e poi c’è lui, Jay Gatsby:
che vive in una bolla di ossessioni e deliri di onnipotenza. Che è tutt’altro
che un personaggio statico, ma che d’altra parte è talmente accecato dalle sue
visioni da non poter arrivare a niente.
Intanto, devo dire che la traduzione della Pivano è davvero
emozionante: i periodi sono vaghi e leggeri, e mi sembra che ricalchino perfettamente
lo spirito del racconto.
E poi il racconto! La trama in sé non ha niente di davvero
originale (il giovane self made man, pazzo d’amore per la giovane borghese,
costruisce un impero e ordisce trame e infine si rovina la vita per strappare
la fanciulla alle grinfie di un marito prepotente e insensibile… direi che l’abbiamo
già sentita). Ma il modo in cui è raccontata è davvero magistrale: ogni elemento è al suo posto; tutto viene detto al momento giusto, in un gioco attentissimo di anticipazioni e flashback.
Il risultato è un resoconto critico e struggente, raccontato dagli occhi increduli
di un narratore estraneo. E anzi, direi che è proprio il narratore a completare
perfettamente il quadro: da un lato, la sua voce distaccata e un po’ ingenua
crea un contrasto efficace con la gravità dei fatti che racconta, al punto che leggendo
continuavo a chiedermi se avevo capito bene, se non mi stavo immaginando tutto;
e dall’altro, il fatto che almeno chi racconta non appartenga al mondo
delirante che descrive crea con il lettore un certo senso di solidarietà e
sollievo... Forse è un espediente un po’ anni Venti, ma devo dire che con me funziona
benissimo :)
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