La gabbia delle
ideologie
"Se non potete eliminare l'ingiustizia, almeno raccontatela a tutti."
Alì Shariati
Ho finito di leggere La
gabbia d’oro da una settimana e ancora non mi sono decisa a scriverne una
riga. Faccio fatica a mettere in ordine in pensieri, a dare un nome alle cose. Quello
che ho davanti è senz’altro un romanzo, ma un romanzo particolare. Più che un
romanzo a tesi, più che un romanzo storico, mi viene quasi da definirlo una parabola. L’impressione
fortissima che si ricava dalla lettura, infatti, è che l’autrice (Shirin Ebadi,
premio Nobel per la pace nel 2003), tutto volesse meno che fare delle
speculazioni letterarie. Piuttosto, che abbia scelto il romanzo perché il suo
messaggio arrivasse al maggior numero di persone possibile.
La gabbia d’oro è
la storia di una famiglia iraniana squassata dalla rivoluzione: tre fratelli,
unitissimi nell’infanzia, vengono separati e distrutti dalle ideologie, vere e
proprie gabbie, in cui si trincerano.
Il maggiore sceglie infatti la cieca lealtà allo Shah; il mediano prende la via del Tudeh, il partito
comunista clandestino; mentre l'ultimo aderisce al fanatismo della rivoluzione
khomeinista. A cercare invano di tenerli uniti è solo la sorella Parì, figura
solare e moderna, carissima amica dell’autrice. Una storia vera, quindi. Vista e
vissuta vicinissimo dalla Ebadi, che infatti, pur mantenendo una voce molto limpida, trasmette
la propria urgenza di raccontare, di dar voce all’ingiustizia e all'assurdità che negli ultimi anni hanno sopraffatto migliaia di famiglie iraniane.
In questo caso, quindi, il romanzo è innanzitutto sociale: grido
di allarme, denuncia, gesto di compassione. Questa finalità è evidente anche
nella forma: asciutta, con ampie e chiare spiegazioni (ottime per gli ignoranti
come me) degli avvenimenti. La voce dell’autrice scandisce gli eventi senza
fronzoli né sentimentalismi; eppure suona profondamente innamorata dell’Iran,
della sua cultura, dei suoi profumi e dei suoi colori. La denuncia della Ebadi
diventa così grido di dolore per una terra sconvolta, per una cultura
dilaniata. In questo senso, dunque, la vicenda di Parì e dei suoi fratelli è paradigmatica: uno strumento - è l'autrice stessa a dichiararlo nell'ultimo capitolo - per raccontare al mondo l’assurda situazione politico-culturale in cui versa l’Iran.
Non quindi un romanzo come sono abituata a pensarlo, in cui soffermarsi su profondità di personaggi e scelte stilistiche, ma la testimonianza, violenta e appassionata, di un pezzo di storia iraniana e non solo. Perché il dramma dei morti insepolti, con cui l'opera si apre e si chiude, non è anche quello dell’Antigone di Sofocle?