domenica 16 agosto 2015

Recensione #68: Incanto

Ricordi di un’estate felice

Incanto di Pietro Grossi comincia come una favola: una vecchia strada misteriosamente asfaltata nel giro di una notte, una moto ritrovata in un capanno, tre amici inseparabili alle soglie dell’adolescenza. Ecco gli ingredienti per un’estate indimenticabile a San Filippo, borgo sperduto in mezzo alla Toscana. 
Poi si sa, gli anni passano, le cose cambiano e gli amici si allontanano: c’è chi tenta la carriera da pilota al Motomondiale, chi vince una borsa per studiare matematica all’estero, e chi deve amministrare il patrimonio di famiglia… in un primo momento, la distanza è solo fisica, e le vita di Greg, Jacopo e Biagio sembrano correre su binari paralleli, come se la forza dei ricordi comuni potesse tenerli ancora legati. E invece, pian piano, ognuno prenderà la sua strada, e dell’infanzia a San Filippo non resterà che il ricordo, inciso nelle memorie come il momento dell’equilibrio perfetto, quello in cui tutto poteva ancora succedere…
Ecco allora che quella che sembrava una favola estiva, raccontata con la leggerezza e la precisione delle memorie di gioventù, si trasforma in una caccia ai motivi, alle svolte critiche, ai primi sintomi del cambiamento, che – chissà – forse nascondono la chiave per comprendere la solitudine incalcolabile dell’età adulta. 

La storia procede per continue analessi, inframmezzate dai commenti della voce narrante (quella di Jacopo, il matematico-fisico che, forse anche a causa delle derive dei suoi studi, è naturalmente portato a ricercare nella propria esperienza le tracce di un disegno, che illumini il cammino tortuoso che la vita l’ha portato a compiere). L’espediente dei flashback è complessivamente riuscito, e contribuisce a dare un certo movimento e una discreta originalità alla costruzione della storia. Tuttavia, non tutti i ricordi sono effettivamente funzionali allo svolgimento della trama, e, a tratti, si ha l’impressione di perdersi nel flusso dei pensieri dell’io narrante. Di più, che il tentativo dell’autore sia quello di alzare il tiro e raccontare altro, oltre alla storia sua e dei suoi due amici: di rendere l’idea della vita al paesello, ma anche quella della fatica dell’uomo moderno, disperso nell’orizzonte immenso del mondo globalizzato. 
Il risultato è un romanzo in discesa, almeno in termini di freschezza e godibilità: la prima parte, quella dedicata alle avventure di gioventù dei protagonisti, con i suoi dialoghi pieni di sottintesi e non detti e quei lievi dialettismi, è potente e nostalgica e al tempo stesso lieve; la seconda, in cui si raccontano i percorsi paralleli dei tre amici, è più densa di storia ma perde un po’ di lucentezza; la terza infine, è intitolata “il dubbio” e offre al lettore i tasselli mancanti del puzzle, oltre che uno spaccato sulla vita newyorkese del narratore. Così ricomposto, il quadro è completo ma anche desolante. E, ora della fine, non all’altezza delle aspettative dei primi capitoli. 
Se questo progressivo abbassamento sia o meno voluto, non saprei dire; la sensazione però è che Grossi, nel tentativo di costruire un affresco complesso, perda qualcosa della sua iniziale capacità di incantare...


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