L’inferno
dei Buoni
Ieri pomeriggio, in treno, ho letto I buoni di Luca Rastello.
È un libro che si legge in un giorno, non tanto
perché è breve, ma perché te lo vuoi togliere di torno, come una spina nel
fianco.
Più che scomodo – come forse vorrebbe essere – lo definirei
un romanzo fastidioso, per ragioni in
modi anche molto diversi.
Fastidioso l’avvio, nelle fogne di una città dell’est,
innominata e innominabile, riconoscibile ma anche esemplare. Il dolore pungente
del degrado annidato oltre i nostri confini, il degrado che non vorresti sapere,
ti mette a disagio.
Fastidioso lo sviluppo. In Italia, nella città
occidentale, “in quella terra fertile, ricca, efficiente, di suburbi verniciati
salmone, inferriate, telecamere e avvisi sui cani feroci”, si consuma una
storia che smaschera quelli che si credono “i Buoni”, le sette asfittiche e del
no profit aziendalista. Rastello tratteggia in modo superbo le sfumature del
Male, insidiato nelle pieghe dell’inferno dei Buoni, ponendo l’accento – particolare
dolorosamente vero - sul linguaggio che questi organismi adottano. Le formule
ricorrenti, le sigle, gli slogan e le trappole; tutti strumenti per dar vita a “la
quintessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che
si erge contro il male assoluto”.
Infine, fastidioso lo sbracamento finale. Negli eccessi
che – anche se niente affatto incredibili – forse era meglio lasciar sottintesi.
Ma soprattutto nella degenerazione della trama, che, nel momento in cui perde
aderenza alla realtà, vanifica almeno in parte il risultato finale, perché
concede una tregua al lettore.
Al termine della lettura, frastornata dalle
emozioni che I Buoni mi ha scatenato,
ho cercato conforto e confronto nella tempesta di informazioni della Rete. E qui
mi sono accorta di essermi persa un pezzo. Presa com’ero nelle mie indignate
riflessioni, non ho colto i riferimenti al Gruppo Abele (per cui effettivamente
Rastello ha lavorato) e a Don Ciotti, che farebbe capolino dietro la figura di
Don Silvano.
Dico farebbe, perché è facile immaginare la
polemica che si è scatenata quando lettori più attenti di me hanno sollevato il
velo della metafora e creduto di riconoscere nel romanzo una trasparente accusa
a una realtà specifica.
L’autore a questo punto si è premurato di
ricordare al mondo la dichiarazione che prudentemente aveva inserito all’inizio
della sua opera: “Nomi propri, toponimi e riferimenti storici sono frutto della
fantasia dell’autore. Pertanto, è corretto considerare queste vicende come
immaginarie”. Pur di liberarsi dell’accusa di aver scritto un romanzo contro Don
Ciotti, è arrivato a sbandierare un non del tutto credibile “Don Silvano c’est
moi”.
Dopo aver letto diversi autorevoli articoli, ho
deciso che la questione mi pare irrilevante.
Se probabilmente è vero che l’opera prende avvio
da una realtà nota e presente e – ipotizzo – dolorosa per l’autore, è vero
anche che, a una come me, che non ha pensato a cercare dirette rispondenze con
le cosiddette “storie vere”, I Buoni ha
parlato in modo onesto. È proprio quando un testo riesce a staccarsi dalla stretta
contingenza della cronaca e della memoria, per dire una parola vera sull’uomo,
che l’operazione del romanzo può dirsi riuscita. Tutto il resto quindi, come sempre, è
solo polemica.