Ingannata dall'elefante
Dopo aver deliziato i frequentatori della
Nefelomanzia con i miei entusiasmi, è bene che torni alle più tristemente
frequentate lamentele. Non sia mai che qualcuno pensi che mi sono rammollita.
Ripercorrendo a ritroso il filone dei miei
arretrati, infatti, incontro Il senso dell’elefante,
un romanzo che mi ha deluso e anche un po’ innervosito.
Prima di cominciare a parlarne male, in sua
discolpa, dirò che l’ho acquistato in un momento di debolezza (accidenti ad
Amazon, e al suo “Acquista con 1 clic”!), cedendo al fascino del paratesto e degli elefanti. Lo sapevate che questi animali, oltre ad avere una memoria pazzesca,
“sono devoti a tutti i figli, al di là dei legami di sangue”? E se scopriste questa commovente verità alla fine di un faticoso pomeriggio in ufficio, non acquistereste
comuplsivamente un libro la cui quarta di copertina inizia con questa frase?
Be’, io sì, senza esitazione. Peccato solo che a fare un libro non basti un bel
titolo.
Lo stile dell’autore non mi dispiace. I suoi non
detti urtano i nervi solo in qualche occasione, negli altri casi possono riuscire anche poetici.
Per esempio, dire “vestire la sedia” invece che “togliersi la giacca e
lasciarla sullo schienale della sedia” non è male. In certi punti, può anche
risultare delicato.
Il problema è solo la trama: per comporre Il senso dell’elefante, che tra l’altro
è stato finalista al premio Campiello 2012, Marco Missiroli non si è fatto
mancare proprio niente, dal prete spretato all’eutanasia, dall’infedeltà
coniugale all’aborto all’incesto.
Ma andiamo con ordine: il protagonista è un certo
Pietro, fallito e reietto pastore di anime, che un giorno, per motivi che
dovrebbero essere misteriosi ma si capiscono due pagine dopo l’inizio, lascia l’amata
Rimini e va a fare il portinaio a Milano, per sorvegliare la famiglia di un
giovane oncologo, solo apparentemente felice. Sullo sfondo, in tanti flash, il
suo doloroso passato.
Credo che il racconto miri ad essere straziante e
delicato, ma non ci riesce. Se posso
permettermi, non si scomodano certi temi senza aver qualcosa di serio da dire. Non serve ricordare il mirabile esempio di Accabadora per dimostrarlo.
Se posso permettermi, forse sarebbe stato sufficiente fare delle scelte: o i preti infelici e i bambini
col cancro, o l’adulterio e l’incesto, o l’aborto e l’eutanasia. Non tutto
insieme, spiaccicato in poco più di 300 pagine. Così facendo, è inevitabile che i
personaggi risultino schematici e poco credibili.
Personalmente, come dicevo, sono rimasta delusa: mi sono sentita coinvolta in un dramma superiore capacità narrative dell'autore. Per dirla in due parole, un altro gigante dalle gambe sottili.