Un bel documentario (NON un bel film)
O meglio: se volete anche parliamo anche del film,
ma – a parte per Brad Pitt, che però a sto giro è decisamente
troppo biondo anche per una superfan come me - davvero non ne vale la
pena.
Ho letto Sette anni in Tibet
per accontentare il mio amico Della, al quale per il suo compleanno
avevo propinato nientemeno che le quasi mille pagine di Shantaram.
Non so se per vendetta o per
sincero interesse per la mia opinione letteraria (credo la prima, ma
non si sa mai), qualche mese fa mi ha messo in mano questo. “Questa
sì che è un'avventura incredibile in Asia. – mi ha detto,
sottintendendo che il mio amato Shantaram fosse
un ammasso di fandonie – Però non ti aspettare un romanzo.”
In effetti,
fin dalla premessa del libro, Heinrich Harrer ci tiene a sottolineare
che “siccome non ha alcuna esperienza di scrittore, si limiterà a
esporre i fatti”. Come dire: “se il risultato è noiosissimo, non
prendetevela con me, io vi avevo avvisato”. O forse: “questa
storia è talmente incredibile che per appassionare i lettori non
serviranno i soliti artifici retorici degli scrittori, basteranno i
fatti.” Che di per sé è un'affermazione non troppo lusinghiera
per la categoria dei narratori, ma che d'altro canto dice sicuramente
alcune verità su quest'opera.
All'inizio del
1939, Heinrich Harrer, ex campione del mondo di sci e conquistatore
di numerose vette inviolate, tra cui l'Eiger, viene scelto per
partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Internato in un campo
di prigionia poco dopo lo scoppio della guerra,
tenta più volte la fuga, rifugiandosi, con incredibili peripezie, in
Tibet. Qui, superata la diffidenza iniziale della popolazione, entra
in perfetta sintonia con la cultura tibetana, arrivando a stringere
amicizia con il Dalai Lama.
Direi che
l'opera si può dividere orientativamente in due parti: nella prima,
il protagonista intraprende un incredibile viaggio per raggiungere
Lhasa, la città sacra del Tibet. Lo stile narrativo piatto e
asciutto, quasi da documentario, è funzionale alla narrazione, il
ritmo si mantiene serrato, il lettore incollato alla pagina.
I problemi
arrivano nella seconda parte. Una volta arrivato a Lhasa, il
protagonista/narratore indugia nel descrivere usi e costumi tibetani,
senza però riuscire a trasmettere al lettore la profondità della
sua esperienza. Di fronte al resoconto di Harrer, viene da chiedersi
se non sarebbe stato meglio scrivere un romanzo, invece che una
cronaca... forse un vero scrittore sarebbe riuscito a mantenere la
verità dei dettagli culturali interessantissimi sul Tibet alla
vigilia dell'invasione cinese, esprimendo anche l'emozione
dell'incontro con una civiltà ancora ancora perfettamente incontaminata dal mondo esterno.
Non so, forse
sono una vittima degli anni Novanta, e la leggenda di Brad Pitt al
cospetto del Dalai Lama bambino mi aveva riempito di aspettative
quasi mistiche su quest'opera. Di fatto, però, ho l'impressione di
aver visto un bel documentario: interessante, ma freddo. Non mi
sembra di aver già viaggiato, come tante volte mi succede con i bei
romanzi... al contrario, però - e sospetto che questo fosse lo scopo del mio amico Della - ho tantissima voglia di partire :)