Un gigante dalle gambe sottili
Se anche voi, come me, siete stati attirati dalla
veste grafica pulita e dalla quarta di copertina accattivante di 1Q84, se anche voi avete preso in
considerazione l’idea di acquistarlo, leggete con molta attenzione le prossime
rquanto segue: QUALCUNO STA CERCANDO DI INGANNARVI.
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Non sto parlando solo di quel burlone dell’autore
(dei suoi imbrogli parleremo a tempo debito), ma soprattutto del suo editore
italiano Einaudi. Perché? Perché Einaudi, nel promuovere il romanzo, si è “dimenticato”
di dire che l’opera non finisce con i due libri di cui è composto il volume che
ha riempito le librerie l’inverno scorso. Nossignore, i libri sono tre. In
Giappone, logicamente, sono usciti in tre tomi distinti; in Italia invece no,
perché noi siamo originali. Così abbiamo avuto prima i libri
uno e
due, e poi, l’ottobre scorso, è uscito il libro
tre, del tutto inaspettato e tra l’altro
mascherato da una copertina praticamente identica alla precedente. Insomma, una
si imbarca con le migliori intenzioni in un’avventura giapponese da più di 700
pagine, e poi, quando pensa di esserne quasi venuta a capo, scopre da una
qualunque insulsa vetrina di viale Montenero che per completare la sua fatica
ne mancano ancora 500… ditemi voi se non è un inganno!

Ma probabilmente questo scherzetto
editoriale mi sarebbe pesato molto meno se il romanzo mi fosse piaciuto. Voglio dire,
se a dieci pagine dalla fine dell’Idiota,
avessi scoperto che ne esisteva il seguito, quasi sicuramente avrei pianto di
gioia. Invece completerò questa verbosa trilogia per il bisogno di simmetria che
ho ereditato da mia madre e per il senso del dovere che mi viene da mio padre… Ben
poco a che vedere con i piaceri della lettura.
Covavo il desiderio di leggere
1Q84 fin dai tempi dell’
Arte di correre e di
Tutti i figli di Dio danzano. Gli avevo
fatto la corte a lungo, nella libreria in cui lavoravo, senza risolvermi a comprarlo,
perché era molto alto e molto costoso… Quando però a Natale mi si è presentata
la possibilità di averlo gratis (meravigliose promozioni di Amazon), non ci ho
pensato due volte: l’ho caricato nel mio Kindle, e gli ho consacrato quasi un
mese di stressanti spostamenti in tram.
Devo dire che la lettura non è faticosa, né spiacevole:
è vero, ho incontrato stili più appassionanti, ma potrebbe anche essere un
problema di traduzione. O magari di distanza culturale: che ne so io, magari ai
giapponesi queste descrizioni minuziose di cose inutili piacciono, chi sono io
per giudicare? È vero anche che certe
insistenze su dettagli erotici mi sembrano gratuite, e che in diversi casi ho
avuto l’impressione di stare guardando i cartoni animati della mia preadolescenza,
o peggio, di ritrovare tutti gli stereotipi più squallidi sui giapponesi (il
delirio alienante della metropoli; l’uomo maturo che si innamora della
ragazzina provocante; la scena d’amore con i petali di ciliegio nell’aria; il
silenzio che vale più di mille parole…). Tutto vero, ma se fosse solo questo,
sarebbe un romanzo mediocre come un altro.
Invece in 1Q84
c’è molto di più. Innanzitutto, c’è la pretesa di scrivere una grande opera, e di
inserirla a pieno titolo nella tradizione letteraria. A questo proposito,
abbondano le citazioni; una su tutte, quella al celebre romanzo di Orwell, a
cui l’autore offre un omaggio esplicito fin dal titolo. Anche i temi sono grandi
classici: il doppio, il personaggio, il nodo arte-vita… Sembra quasi di parlare
di Pirandello! Ma, a differenza di Pirandello, Murakami non ha il senso del
limite, e trasforma il suo romanzo in un delirio di onnipotenza. Il risultato è
una lenta agonia, oltre che una fastidiosa delusione: all’inizio la trama è
intrigante, e stimola il lettore a formulare teorie per far tornare i conti. Verso
la fine del libro uno, però, si
comincia a dubitare che tutte le domande troveranno una risposta… E i sospetti
si confermano tristemente nel libro due.

Insomma, non posso ancora esprimere un parere definitivo, e
spero vivamente di ricredermi, ma credo proprio che anche Murakami sia stato contagiato dalla sindrome di J.J. Abrams, meglio conosciuta come sindrome
di Lost, che, come è noto, colpisce tutti gli autori
che si lasciano trascinare da una bella intuizione, ma non sanno darle senso e
respiro in una struttura solida. E al lettore non regalano altro che l'ennesimo elefante
dalle gambe sottili.