giovedì 18 aprile 2013

Recensione #39: Il senso dell'elefante


Ingannata dall'elefante

Dopo aver deliziato i frequentatori della Nefelomanzia con i miei entusiasmi, è bene che torni alle più tristemente frequentate lamentele. Non sia mai che qualcuno pensi che mi sono rammollita.
Ripercorrendo a ritroso il filone dei miei arretrati, infatti, incontro Il senso dell’elefante, un romanzo che mi ha deluso e anche un po’ innervosito.
Prima di cominciare a parlarne male, in sua discolpa, dirò che l’ho acquistato in un momento di debolezza (accidenti ad Amazon, e al suo “Acquista con 1 clic”!), cedendo al fascino del paratesto e degli elefanti. Lo sapevate che questi animali, oltre ad avere una memoria pazzesca, “sono devoti a tutti i figli, al di là dei legami di sangue”? E se scopriste questa commovente verità alla fine di un faticoso pomeriggio in ufficio, non acquistereste comuplsivamente un libro la cui quarta di copertina inizia con questa frase? Be’, io sì, senza esitazione. Peccato solo che a fare un libro non basti un bel titolo.

Lo stile dell’autore non mi dispiace. I suoi non detti urtano i nervi solo in qualche occasione, negli altri casi possono riuscire anche poetici. Per esempio, dire “vestire la sedia” invece che “togliersi la giacca e lasciarla sullo schienale della sedia” non è male. In certi punti, può anche risultare delicato.

Il problema è solo la trama: per comporre Il senso dell’elefante, che tra l’altro è stato finalista al premio Campiello 2012, Marco Missiroli non si è fatto mancare proprio niente, dal prete spretato all’eutanasia, dall’infedeltà coniugale all’aborto all’incesto.
Ma andiamo con ordine: il protagonista è un certo Pietro, fallito e reietto pastore di anime, che un giorno, per motivi che dovrebbero essere misteriosi ma si capiscono due pagine dopo l’inizio, lascia l’amata Rimini e va a fare il portinaio a Milano, per sorvegliare la famiglia di un giovane oncologo, solo apparentemente felice. Sullo sfondo, in tanti flash, il suo doloroso passato.
Credo che il racconto miri ad essere straziante e delicato, ma  non ci riesce. Se posso permettermi, non si scomodano certi temi senza aver qualcosa di serio da dire. Non serve ricordare il mirabile esempio di Accabadora per dimostrarlo.
Se posso permettermi, forse sarebbe stato sufficiente fare delle scelte: o i preti infelici e i bambini col cancro, o l’adulterio e l’incesto, o l’aborto e l’eutanasia. Non tutto insieme, spiaccicato in poco più di 300 pagine. Così facendo, è inevitabile che i personaggi risultino schematici e poco credibili.
Personalmente, come dicevo, sono rimasta delusa: mi sono sentita coinvolta in un dramma superiore capacità narrative dell'autore. Per dirla in due parole, un altro gigante dalle gambe sottili. 

giovedì 11 aprile 2013

Recensione #38: Se ti abbraccio non aver paura


Viaggio oltre la retorica

Comincio questa recensione seguendo due consigli: quello di riprendere la buona abitudine di scrivere (grazie Anna), e quello, per una volta, di dare un parere decisamente positivo su un libro (grazie Laura). Spero di fare cosa gradita ai miei venti lettori!
Comincio quindi a pagare il mio debito con la Nefelomanzia dalla fine, raccontando del libro che ho chiuso ieri sera, con niente meno che un lacrimone a bordo occhio.

Se ti abbraccio non aver paura ha bussato alla porta delle mie prossime letture diverse volte, prima che lo considerassi; e alla fine, con la determinazione che solo il destino, mi si è messo in mano (grazie Mari) e mi ha raccontato la sua storia. La storia di un padre coraggioso che, sfidando ogni buonsenso e prudenza, attraversa le Americhe con suo figlio autistico Andrea.
Primo elemento di fascino: è una storia vera, avvenuta nel 2010. Le immagini del viaggio sul sito sono una vera sorpresa: Andrea è un ragazzo bellissimo e sorridente, e assomiglia parecchio a suo papà. E con questo (ammetto con una punta di vergogna) metà dei miei pregiudizi sull’autismo sono andati. L’altra metà viene dissipata dall’autore, che, nonostante la vicenda sia raccontata in prima persona, non è il protagonista della storia, ma Fulvio Ervas, uno scrittore specializzato in gialli vagamente surreali, a cui il padre di Andrea ha raccontato la sua storia, da bravo veneto, a colpi di ombre de vin. Devo dire che Ervas è proprio bravo: racconta questa avventura senza pietismi e senza pudori, con un trasparenza che a tratti è dolorosa e a tratti veramente sorprendente. 
Dove l’avventura non è solo il viaggio stupendo  a spasso per il Nuovo Continente, e neanche la libertà di non progettare niente oltre il domani; è soprattutto quella di una relazione padre-figlio costruita, come tutte, ma ovviamente più di tutte, sulla fatica e sul silenzio. Particolarmente commoventi sono proprio i brandelli della loro comunicazione. Non quella verbale, a cui difficilmente Andrea riesce ad affidarsi, ma quella scritta. Attraverso il computer, infatti, il ragazzo ha imparato a rispondere alle domande dei genitori, esprimendo i propri pensieri e stati d’animo. Ervas trascrive alcuni brani di queste conversazioni, stupefacenti per la consapevolezza che testimoniano. Un lettore ignaro e benpensante come me ne rimane ferito: istintivamente si racconta che un ragazzo autistico non si rende conto della propria condizione, che vive in un mondo parallelo e, chissà perché, felice. Invece Andrea  parla a suo padre della malattia, gli dice che soffre, e che si sforza di essere diverso. Se ti abbraccio non aver paura mette il lettore benpensante spalle al muro, e lo costringe a fare i conti con una situazione incredibilmente dura. E poi, allo stesso tempo, lo risolleva. E mostra, attraverso la figura di questo padre coraggioso, come anche nella sofferenza non valga la pena di farsi prendere dallo o sconforto. Molto meglio invece affrontare la questione e amare, e al limite sfidare il proprio limite e partire.

Saranno i vuoti d’aria, sarà la fine del viaggio. Sarà che la vita è complicata e bella. Sarà perché noi non sappiamo e almeno immaginare, bello o brutto che sia, ci porta oltre.
Ci porta a domani.